di Ennio Doris
Quello che è accaduto sull'Alpe d'Huez, su quella montagna domata per la prima volta nella storia da Fausto Coppi nel 1952, mi ha portato a fare una riflessione. Il ciclismo è ancora uno sport popolare animato dalla semplice voglia di partecipazione o sta vivendo una preoccupate degenerazione?
Questa è la domanda che mi martella da giovedì pomeriggio. È mai possibile assistere ad uno spettacolo così raccapricciante? La risposta è chiaramente no. Non è tollerabile che il nostro sport sia ostaggio di hooligans che prendono posto sulle vette più iconiche del ciclismo, per vivere l'attesa di uno sport meraviglioso come se fosse un rave party. Il ciclismo, negli ultimi anni, sta vivendo un lento ma inesorabile decadimento. Questi happening a cielo aperto sono di una bellezza assoluta, se restano però nei confini della partecipazione rispettosa, e nell'incontro fatto di braciole e un buon bicchiere di vino. Musica e allegria. Tifo e un evviva per il primo e per l'ultimo.
Adesso qualcosa è cambiato: nella nostra società e sulle strade del mondo. Perché questo non è un problema solo francese, ma anche italiano, spagnolo e belga. Ragazzi e ragazze che si danno appuntamento con qualche padre e madre è una cosa bellissima. Sarebbe bellissimo. Ma il condizionale oggi è d'obbligo, perché prevale l'esaltazione, l'esagerazione, con fumogeni da stadio che soffocano lo spettacolo e ammorbano i polmoni di ragazzi che sotto sforzo devono stare attenti a non cadere e a non respirare aria avvelenata.
È una deriva preoccupante questa, che rischia davvero di soffocare non solo i polmoni di questi fantastici campioni, ma l'intero sport che rappresentano. Sportivi e appassionati che per anni hanno beneficiato e ancora beneficiano di un privilegio assoluto: accarezzare i propri beniamini. Ascoltare l'incedere frenetico e sofferto di questi grandi campioni. Assistere, da dentro, una tappa del Giro o del Tour: un'emozione unica.
Io tante volte ho avuto questo privilegio e come tale lo considero. Avvicinarsi a loro, per comprenderne il senso della fatica e del loro talento. Sarebbe come assistere a bordo campo, al pari di un guardalinee, alla finale di Champions. Con il ciclismo questo è possibile. È ancora possibile. Ma se il grande popolo del ciclismo non capirà che è giunto il momento di spegnere i fumogeni e tornare a gridare un «W tutti» incondizionato, allora presto tutto questo sarà finito.
Se non si corre ai ripari, la strada è segnata, da una transenna che li allontanerà. Questo è il rischio. E se così fosse gran parte del fascino di questo sport andrà in fumo. E pensare che fino a non molto tempo fa tutto lo sport invidiava i nostri tifosi
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