Gli svedesi sono al plurale. Noi al singolare

Gli svedesi sono al plurale. Noi al singolare

Una serata con dress code qualcosa di azzurro. Coccarde sul televisore, tricolore a vegliare su tutti loro (a Solna) e tutti noi, buffet patriottico. Pane, salame, formaggi, torta sbrisolona, spumante. Gli svedesi ci hanno regalato l'Ikea, il Gre-No-Li, la salsa all'aneto, gli Abba (Mamma mia!), Stieg Larsson e gli uomini che odiano le donne (libri e serie tv), ma con tutto il rispetto non c'è paragone, né nell'arte, né nella cucina, né nel football. Eppure siamo qui a subire, a soffrire con un gioco che arranca, poveri di tutto e soprattutto di quel senso di appartenenza che, invece, i ragazzi (c'è ancora Granqvist, l'avevamo dato per disperso) in giallo e blu mostrano.

È questa la grande differenza, al di là di tutti i paragoni, anche tecnico/tattici. Gli svedesi giocano da squadra, portando i loro limiti in prima linea, spingendo la loro mediocrità oltre la siepe. Loro sono una squadra, giocano tutti puntando a un obbiettivo comune, sono plurale, noi siamo singolare. Non c'è qualcosa che ci unisca, questo senso di non appartenenza transita dai tifosi ai giocatori, da noi a loro. La nostra idea di nazione è molto vaga, come l'idea di Nazionale. Siamo riusciti a trovarla solo quando si sono manifestati leader forti, capaci di farci oltrepassare i nostri orticelli, i nostri personalismi.

La Svezia non fa molto più di noi. Trova un gol su deviazione in un'area affollata, noi colpiamo un palo che ancora ballonzola. A guardare non c'è una grande differenza, ed è proprio questo il problema.

Ci doveva essere, doveva manifestarsi una distanza, dovevamo essere migliori di così. Invece siamo sempre i soliti. Non riusciamo a trovare un sentire comune. Non abbiamo un'ideologia e neanche un'idea. E alla fine tutto il nostro buffet patriottico è andato sprecato.

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