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Tim, il gigante che ha messo in ginocchio l'America (ma solo per pregare...)

Il campionato di football americano è finito ma Tebow, 24 anni, quaterback dei Denver Broncos, continua far parlare di se

Tim, il gigante che ha messo  in ginocchio l'America  (ma solo per pregare...)

John 3:16. Sembrava uno schema chiamato invece era Gesù a chiamare. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna». Sembra Pulp Fiction, ma è la Bibbia, Giovanni 3:16, sacra scrittura. Tim se l'è disegnata sotto gli occhi, come un capo indiano Sioux prima della battaglia, nella striscia di vernice nera che i giocatori si dipingono sugli zigomi per deflettere i raggi di sole durante le partite. Poi Tim Tebox, il braccio del Signore, ha punito come il giusto vuole gli Oklahoma Sooners in un giorno di straordinaria follia e consegnato il Bcs National Championship Game ai Florida Gators di football americano, il paradiso dei giganti. Subito dopo averlo guardato negli occhi novantadue milioni di yankees si sono collegati su internet non per rivedere i traccianti terra aria del quaterback più cool del momento, ma per scoprire cosa nascondesse, come fosse il codice da Vinci, la quartina 3:16. Dopo nulla è stato più come prima: con una legge ad personam, ribattezzata tanto per non sbagliare «Tebow Rule», certe sconvenienti esibizioni sono state vietate a tutti per l'eternità. La purezza non è di questo mondo.

Ma Dio vede e provvede. Tim il Templare, il quaterback dell'Onnipotente, come lo ha ribattezzato nell'acquasantiera il «Wall Street Journal», obbedisce solo alle tavole della legge consegnate a Mosè, non ai regolamenti della National football League. E così sul campo, ogni maledetta domenica, per fede e per tigna, si inginocchia in preghiera davanti all'indifferenza del mondo, il pugno sulla fronte, come il pensatore di Rodin, ringraziando «il mio Signore e Salvatore, Gesù Cristo, che tanto ha fatto nella mia vita». Oddio, non è il solo predicatore dello sport. Kaka ha già deciso, smesso il pallone sarà pastore evangelico, «he belong to Jesus», Taribo West da anni è sacerdote pentecostale. Nessuno ha dimenticato le mani aperte al cielo di George Weah, i sermoni di Muhamad Alì, le bibbie di Amarildo. Ma nessuno è diventato un'ossessione nazionale, un rito di purificazione di massa, una vaga presa per i fondelli generale come Tim. Un epidemia di paternoster, che ha contagiato vip e minivip, gente comune e gente fuori dal comune, diventando vocabolario, slang, linguaggio comune. Il «Tebowing» è il neologismo del momento, chinarsi in inglese si traduce «to bow», ma è anche il sito dove Jared Kleinstein, ultrafan dei Denver Broncos, la squadra di Tim, raccoglie come santini le foto dei fedeli in preghiera come il quaterback di Dio dalle spiagge dell'Ecuador alle vette del Machu Picchu. Praticamente tutti. Non c'è parroco, da San Francisco a New York, che non lo abbia citato nel sermone della messa di mezzanotte «per rendere giustizia a un grande uomo che ha restituito Cristo al Natale», e quasi un americano su due, sondaggio del «Washington Post», è convinto che sia la Provvidenza a guidare i suoi successi, «in hoc signo vinces». Lui stesso, nato nelle Filippine da genitori missionari battisti, si sente un miracolo di Dio. Meglio se abortisci, consigliarono i medici a mamma Pamela durante la gravidanza, quando un'ameba scatenò una gravissima infezione, tanto il tuo bambino non sopravviverà comunque. Ventiquattro anni dopo il bambino ha uno stipendio da un milione e mezzo di dollari, sette volte gli articoli dei suoi rivali quarterback sui giornali, audience che guadagna almeno il dieci per cento ogni volta che si fa vivo e un'autobiografia «Trough My Eye» che va a ruba anche se rubare è peccato mortale. «Sono il bimbo del miracolo» osò dire in uno spot antiabortista che l'associazione cristiana e pro life «Focus on the Family» pagò per mandare in onda anche nel Superbowl. Le femministe non glel'hanno mai perdonata. Ma è la sacrosanta verità.

E si che questo gigante buono di un metro e novantuno per centosette, dalla faccia pulita e i muscoli cattivi, non è nemmeno il meglio che c'è. Umorale, incostante, a volte imbarazzante, a volte magnifico è arrivato a un passo dal Superbowl, prima che i Patriots lo facessero uscire, dal turno e dal campo, come San Sebastiano, con costole, polmoni e torace a pezzi. Ma in campo, scrive Tempi, «sembra che un alone mistico d'invincibilità si depositi sull'intera squadra, ci si aspetta da un momento all'altro che dalle schiene dei giocatori spuntino ali e nelle loro mani compaiano spade di fuoco». Ed ecco allora rimonte spettacolari, ribaltamenti dell'ultimo minuto, lanci dell'Ave Maria che non perdonano. Freddo perché la vita è altro, sicuro perché Dio è con te. Tim, vergine dichiarato, «ma solo fino al matrimonio», è un fenomeno che va oltre la fede per diventare costume nazionale, tormentone ma pure parodia. Le magliette con il volto di Gesu e il numero di Tebow, il 15, vanno da dio, ma anche il biscottone salato che un panettiere di Atlanta ha fatto su misura per lui, a forma di Tim che prega, pane quotidiano, corpo di Cristo. C'è chi, anche tra i devoti del Signore, lo considera un esibizionista che farebbe meglio a custodire nel privato la propria fede, gli stessi poi che se protesti nudo nelle piazze sei un paladino della libertà. Lui alza gli occhi al cielo, sorride e perdona.

Si può chinare il capo anche a testa alta.

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