Da Stalin a Cuba, il Festival scopre il comunismo cattivo

RomaSe fosse un gioco il Capitalismo perderebbe almeno 4 a 1. Alla fine però si tratterebbe d’una vittoria. Perché al Festival di Roma per un film che mette sotto accusa un certo liberismo finanziario (l’atteso Too Big To Fal di Curtis Hanson con William Hurt sul fallimento del colosso Lehman Brothers nel 2008) ce ne sono almeno quattro che analizzano impietosamente il Comunismo, da quello di Stalin agli ultimi epigoni di Cina, Cuba e Corea del Nord.
Così oggi passa in concorso Hotel Lux del tedesco Leander Haussmann incentrato sul noto albergo moscovita che ospitava il Comintern divenuto negli Anni ’30 anche «la pensione della rivoluzione mondiale» con tanti esponenti comunisti tedeschi fuggiti da Hitler. Ma, come accadrà al protagonista del film, per molti sarà come passare dalla padella alla brace. Infatti in quegli stessi anni Stalin stava facendo le sue grandi «pulizie» ossessionato dai nemici, veri e presunti. Tanto che, si legge nelle note di regia, «morirono più eminenti comunisti tedeschi di quanti caddero sotto Hitler». Il film racconta la grande storia ricorrendo al vaudeville e alla satira (il protagonista Hans Zeisig è un comico che fa sbellicare il pubblico con il suo «Stalin-Hitler-Show») ma alla fine rimane l’amaro in bocca.
Proprio come accade in un altro bel titolo in concorso, lo spietato e sorprendente Poongsan, diretto dal coreano Juhn Jaihong e prodotto dal più noto collega Kim Ki-duk, che ruota tutto attorno alla figura di un giovane impegnato ad attraversare la cosiddetta zona smilitarizzata tra le due Coree per recapitare, in quella inaccessibile del Nord, i messaggi di dolore e di speranza delle famiglie lontane. Un giorno porta dal Nord al Sud l’amante di un disertore nordcoreano e da quel momento inizierà il suo incubo tra i servizi segreti dei due Paesi. Nella prima parte ci troviamo di fronte a un commovente melodramma che si trasforma poi in un claustrofobico racconto - quasi alla maniera dell’horror Saw - della follia dei metodi repressivi della Corea del Nord «in lotta contro il capitalismo americano». Poi certo, quando gli agenti dei servizi segreti comunisti si sentono dire da un disertore appena catturato: «Mi piace la Corea del Nord», non possono non chiedergli: «Ma che cosa ti piace? Perché ce lo domandiamo pure noi».
Che poi è il quesito del bel documentario Patria o muerte di Vitaly Manskiy, presentato in concorso nella sezione «L’altro cinema - Extra», in cui una troupe di russi disincantati si trova a confrontarsi con il fallimento di un altro socialismo reale. La macchina da presa si muove in una Cuba lontanissima dalle cartoline patinate. Dove la mattina i bambini cantano per la patria all’alzabandiera ma ai genitori piove in casa, il cibo è razionato e chi può fugge, anche dalla prostituzione diffusa. Perché, lo dice con calma un’anziana signora che ha visto tutto, «se esiste l’inferno, io sto all’inferno».


Più o meno lo stesso luogo in cui pensano di vivere i condannati a morte cinesi stando allo sconvolgente documentario - sempre nella sezione Extra - Dead Men Talking di Robin Newell che ha seguito per mesi il programma tv di grande successo «Intervista prima dell’esecuzione». Così, tra sguardi attoniti e storditi dei condannati, spesso fatti incontrare con i figli, mogli, genitori, scopriamo che alla loro pena di morte si aggiunge anche quella catodica.

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