La stanza di Mario Cervi

Caro Cervi, negli ultimi tempi, e sempre più spesso rispetto al passato, i giornali e i giornalisti parlano di se stessi. I giornali diventano notizia, cioè sono ciò che invece dovrebbero veicolare. E perde di senso la definizione generale della categoria. Dovrebbero essere «media», cioè l’elemento di mediazione tra un fatto e la sua divulgazione. Sono diventati insieme fatto e mediazione. Il quarto potere ha un’importanza strategica, accanto agli altri tre costituzionalmente definiti (legislativo, esecutivo, giudiziario), per cui la sua degenerazione dovrebbe suonare almeno come un allarme. Che ne sarebbe di giudici che, anziché fare udienze, discutessero di se stessi, o di un Parlamento fermo a fissare il proprio ombelico (già lo fa, però), o di un governo che anziché al bene comune pensasse solo alla sua autocelebrazione (già lo fa, però, e vediamo i risultati)? Le regole sono saltate, le notizie un inutile orpello, la casacca aziendale l’unica divisa che si distingue nella notte dell’informazione dove cronisti e commentatori diventano pedine del grande gioco e non sono più tali, cioè cronisti e commentatori. Così le redazioni diventano il luogo del sospetto malcelato, la domanda sottintesa a ogni articolo è cui prodest? Inchieste sui colleghi, dell’una o dell’altra parte, parole usate come sassi, accuse.

Con buona pace del Brecht che fa dire al suo Galileo rivolto agli inviati del Sant’Uffizio: «Sarebbe bastato guardare nel cannocchiale», per vedere le lune di Giove e con esse la prova che la Terra gira attorno al Sole. Sarebbe bene aprire le finestre delle redazioni e respirare: fuori c’è un mondo da raccontare per chi avesse ancora la voglia di farlo.
Monfalcone (Gorizia)

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