la stanza di Mario CerviAlla giustizia italiana il garantismo costa molto caro

Come sempre mi capita in casi simili (purtroppo tutt'altro che insoliti) mi domando: ai giudici del primo processo di appello Sollecito-Knox, la cui sentenza di assoluzione è stata cassata dalla Corte Suprema e bollata con parole che la equiparano alla carta straccia, è successo qualcosa o sono ancora tranquillamente al loro posto, continuando a sentenziare come se nulla fosse accaduto?
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Caro Rizzi, l'accavallarsi di sentenze contraddittorie in interminabili vicende giudiziarie sconcerta gli italiani che vorrebbero poter credere in una legge certa. Dalle lungaggini e dall'intrico scandaloso dei processi lei prende spunto per chiedersi se i magistrati le cui sentenze siano state dichiarate sbagliate da sentenze successive stiano ancora degnamente al loro posto. Io credo che ci stiano a ragion veduta. Anzitutto - e la circostanza non è formale ma sostanziale - nei collegi di Corte d'Assise i giudici «togati» (due) sono minoranza rispetto ai sei giudici popolari. Può dunque darsi - anche se raramente - che la sentenza non sia come la vogliono i «togati». È capitato che magistrati sconfessati dai giudici popolari abbiano motivato la sentenza in modo così palesemente suicida da rendere inevitabile la riforma della sentenza stessa. Ma poi i garantismi - troppi - delle procedure italiane ci sono proprio per rendere possibile la correzione degli errori. Se i magistrati sapessero di far rischiare sanzioni ai colleghi i cui verdetti fossero cambiati avrebbero un modo sicuro per evitare guai ad altri magistrati: confermare sempre la sentenza precedente, vanificando in pratica la possibilità d'impugnarla.

Nel diritto anglosassone i verdetti delle giurie sono definitivi - in particolare le assoluzioni - e non abbisognano di motivazioni. Il che rende tutto più semplice e spiccio. Lo preferiamo davvero? Oppure tutto sommato ci sta bene la selva selvaggia dei nostri riti giudiziari, con i mitici «faldoni» di centinaia di migliaia di pagine?

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