PAROLA_LETTORI

la stanza di Mario CerviIl dramma di Ramelli e dei giovani accecati dall'ideologia

Caro Cervi, un pensierino doveroso in un angolo del Suo giornale lo si può riservare ad Anita Ramelli, mamma dell'indimenticato Sergio, morta il 23 dicembre dopo aver passato 38 anni a chiedere inutilmente giustizia per quel povero figlio, diciottenne, assassinato dalla violenza dei comunisti armati di spranghe, come usava tristemente negli anni di piombo. Assassini quasi sempre impuniti perché i morti di destra erano di serie B, perché «uccidere un fascista non è reato». Quell'assalto proditorio a un giovane solo e disarmato è la fotografia di un'epoca: l'agguato del 13 marzo 1975 non fu un avvenimento occasionale, ma l'esito di un'infamia collettiva che s'era consumata per mesi, in silenzio, nell'istituto tecnico Molinari frequentato da Sergio. Erano i giorni in cui Sergio, da solo, doveva difendersi da centinaia di compagni di scuola che non gli perdonavano la militanza nel Fronte della Gioventù. Non ebbe paura e pagò con la vita. I colpevoli di Avanguardia Operaia e i seminatori di odio non hanno mai scontato la pena che meritavano, e i cattivi maestri sono tuttora tonitruanti nel proporsi come torvi e marci sacerdoti delle coscienze.
Castiglione della Pescaia (Grosseto)

Caro Danubi, l'assassinio di Sergio Ramelli è stato una pagina tra le più infami degli anni di piombo. Nei covi dell'eversione si auspicò che la marcia rivoluzionaria annoverasse «cento, mille, centomila Ramelli». Morti ovviamente. Il crimine non rimase impunito. Una decina d'anni dopo gli uccisori di Ramelli furono individuati e arrestati. Erano quasi tutti ex studenti di Medicina che, approdati alla laurea, avevano per lo più trovato posto in strutture sanitarie pubbliche. Le condanne oscillarono tra gli 11 anni per i capi della squadraccia e i 6 anni per i gregari. A destra si protestò con veemenza essendo le pene ritenute inadeguate, a sinistra vi fu chi vide in quell'uccisione un atto politicamente comprensibile se non proprio corretto. Il 16 aprile di quella tremenda primavera del 1975 un noto neofascista, Antonio Braggion, abbattè con un colpo di pistola uno studente, Claudio Varalli, coetaneo di Ramelli. Un gruppo di giovani che ritornavano da una manifestazione contestataria aveva avvistato, in piazza Cavour a Milano, tre militanti d'estrema destra, tra cui il Braggion. Che fu braccato e si rifugiò nella sua auto tempestata con le aste della bandiere rosse fino a infrangerne il lunotto posteriore. Braggion, che aveva nella macchina una pistola, sparò e ammazzò Claudio Varalli. Al Braggion fu inflitta in primo grado una condanna a 5 anni per eccesso colposo di legittima difesa, ridotta a 3 anni in appello. E a sinistra si scatenarono polemiche furibonde per la mitezza delle pene. Per completezza aggiungo a questi cenni l'accoltellamento mortale d'un militante della sinistra estrema, Alberto Brasili, il 25 maggio nella milanese piazza San Babila, a opera di ultras neofascisti. Una stagione orribile, che va rivista in tutte le angolazioni forsennate della ferocia ideologica.

L'abbiamo superata, e ripensandoci sembra un miracolo.

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