Lo Stato salutista? Fa male alla salute

L’economista americano Mark Thornton spiega l’origine e le conseguenze dei nuovi proibizionismi Dal fumo ai grassi, dall’alcol alla vita sedentaria, il paternalismo igienico minaccia la nostra libertà

Lo Stato salutista? Fa male alla salute

Quella del proibire è una pratica antica. Fin nelle epoche più lontane si rinvengono tabù e interdetti, e ogni società esige regole che definiscano un quadro legale ben preciso, che limiti l’imprevedibilità dei comportamenti altrui. Ma un certo tipo di proibizionismo è abbastanza recente, poiché è legato a specifici cambiamenti culturali che hanno caratterizzato la civiltà occidentale degli ultimi cent’anni.
Un’ottima introduzione a questi temi si deve a Mark Thornton, un ricercatore del Mises Institute di Auburn (in Alabama) che nel suo volume del 1991 intitolato L’economia della proibizione - ora disponibile in italiano grazie all’editore Liberilibri di Macerata - ha sviluppato un’ampia riflessione su tale aspetto peculiare della modernità: esaminando dapprima il proibizionismo sugli alcolici (e il suo fallimento conclamato) e di seguito quello sulle droghe (e l’analogo fallimento, che però molti faticano ad ammettere).

Le tesi principali della riflessione di Thornton non sono estranee al dibattito italiano sul tema, poiché almeno in parte egli usa argomenti dibattuti anche da noi: specie quando evidenzia che la proibizione porta a un aumento del prezzo degli stupefacenti e di conseguenza induce la criminalità a investire somme massicce per commercializzare tali sostanze. Il risultato è che oggi le droghe sono ovunque e a caro prezzo, arricchiscono mafie e politici corrotti, causano un gran numero di morti, riempiono le carceri, sono una fonte costante di conflitti e tensioni internazionali.

Ma c’è anche dell’altro. Thornton mostra ad esempio come le origini del moderno proibizionismo - che nasce contro l’alcol e poi investe pure la droga - siano tutt’altro che limpide. L’ispirazione degli intellettuali che vollero bandire birra e whiskey era un mix di greve positivismo e di puritanesimo secolarizzato. Quella che si voleva era un’America più industriosa e addomesticata, e il campione di tale prospettiva culturale - l’economista Irving Fischer - non nascose che il suo progetto di un’umanità senza alcol doveva condurre ad un ordine tecnocratico e socialista, orientato verso una crescente produttività. L’argomento principale di Fischer era che la proibizione arrecava all’America un beneficio di circa sei milioni di dollari ogni anno: la cifra era buttata lì e senza il minimo fondamento, ma serviva a giustificare la legislazione liberticida.

Quel proibizionismo crollò su se stesso, nei duri anni della Grande Depressione, travolto dagli effetti disastrosi che aveva prodotto. Ma, come Thornton sottolinea, lo spirito millenaristico che l’animava, incapace di fare i conti con l’imperfezione umana, non è scomparso. Il disinteresse per la libertà individuale che caratterizzava la propaganda del primo proibizionismo si ritrova in larga misura nell’igienismo di Stato del nostro tempo.

La guerra alla droga condotta dagli Usa e anche da altri Stati va per giunta collocata ormai entro un quadro più ampio: se da un lato trae origine dalla stessa cultura che ha proibito gli alcolici, d’altro lato è molto connessa allo svilupparsi di crescenti attenzioni regolamentari volte a proibire non solo la pratica suicidante dell’eroinomane, ma anche il fumo delle sigarette e dei toscani, i cibi grassi e artefatti, la sedentarietà. Specialmente in Nord America l’isteria salutista sta infittendo di proibizioni la vita di ognuno, al punto che vi sono taluni comuni della California in cui è proibito fumare una sigaretta nelle abitazioni private e perfino in automobile.

Dopo gli studi pionieristici dello psichiatra libertario Thomas S. Szasz, ormai sono molti gli autori che denunciano apertamente l’avvento di uno «Stato terapeutico», quale ultima versione dello Stato moderno. Lo ha fatto ad esempio James L. Nolan in The Therapeutic State: Justifying Government at Century’s End, del 1999, mostrando come il potere s’insinui sempre più nelle nostre scelte personali, decidendo al nostro posto e per il nostro bene. Se un tempo il diritto indicava norme che avevano la funzione fondamentale di proteggere i diritti altrui, adesso pretende di sostituirsi a noi in tutto: dicendoci cosa dobbiamo fare anche quando le eventuali conseguenze negative della nostra condotta non sono invasive dell’esistenza di altri.

E' insomma un vasto programma biopolitico (per usare la terminologia foucaultiana) quello che sottende il paternalismo trionfante, proiettato al controllo della corporeità di tutti e di ognuno. Uno degli intellettuali più vicini a Barack Obama, Cass Sunstein, è arrivato a elaborare la formula paradossale del «paternalismo libertario», al fine di giustificare un progressivo intervento pubblico che ci tratti da minori con lo scopo di allargare il raggio delle nostre facoltà. L’idea è che bisognerebbe perdere la libertà per rafforzarla.

Ma quando lo Stato mette in discussione la possibilità di agire in maniera viziosa anche se questo comportamento non è aggressivo (mentre, nella sua saggezza, San Tommaso d’Aquino aveva ben chiaro che vi sono peccati che non sono reati), ci si trova su una china che conduce verso prospettive totalitarie.

Da economista della scuola austriaca e quindi attento alla lezione di Mises e Hayek, l’autore de L’economia della proibizione evidenzia che «la domanda di politiche interventiste quali quella della proibizione nasce dalla percezione che il processo di mercato ha fornito risultati insufficienti o che non correggerà le sue inefficienze». Il proibizionismo o è illiberale o non è, dato che incarna una pericolosa presunzione del ceto politico, che punta ad arrestare ogni evoluzione imprenditoriale: «Il processo di scoperta del mercato porta alla circolazione di prodotti meno costosi, di qualità migliore e più sicuri. La proibizione pone fine al processo di scoperta e lo rimpiazza con un mercato nero e un processo burocratico, ognuno con i suoi mali». È come se il mondo si fermasse e nessun futuro migliore fosse possibile. Gli imprenditori escono di scena e il loro posto è preso da politici e burocrati. Ma come rilevò Mises, «se si abolisce la libertà dell’uomo di determinare il proprio consumo di beni, si tolgono tutte le libertà».

Vi è allora un’ultima, decisiva questione da tenere presente: e cioè che la responsabilità individuale può crescere solo nella libertà. Un’umanità regolamentata ed eterodiretta può forse evitare le conseguenze nefaste dei trigliceridi, degli oppiacei, della nicotina e dell’alcol, ma non riuscirà certo ad acquisire la forza interiore di chi resiste a questa o quella tentazione in virtù della propria temperanza: e quindi della propria maturità. Il paternalismo, insomma, ci condanna a un’esistenza da eterni bambini.
Va anche aggiunto che chi come Thornton difende la libertà contro la proibizione non intende promuovere la diffusione di pratiche irresponsabili: dal consumo eccessivo di alcol all’assunzione di cocaina.

Semplicemente, egli evidenzia come il proibizionismo sia inefficace e - quel che è peggio - irrispettoso della dignità dell’uomo. Il quale, quando regna lo Stato terapeutico, si vede negare la libertà di sbagliare. E non si tratta di una libertà di poco conto.

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