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«Stiamo già pensando a come colpire la Siria»

Gian Micalessin

da Haifa

La sua carriera iniziò tra le file di Sayeret Matkal, la più famosa e decorata unità d’élite dell’esercito israeliano. Quando il futuro premier Ehud Barak, allora comandante dell’unità, lo convocò e gli offrì una carriera da ufficiale il soldato semplice Avi Dichter non esitò a rifiutare. «No grazie, da ufficiale non potrei più partecipare a tutte le operazioni, da soldato mi diverto di più». Da allora, nonostante il «gran rifiuto», la carriera di quel soldato non si è più fermata.
Nel 2000 Ehud Barak non si lasciò sfuggire l’occasione di metterlo alla guida dello Shin Bet, i servizi di sicurezza interna in prima linea nella lotta alla rivolta palestinese. Da capo dello Shabak, Avi Dichter ha guidato la lotta ai gruppi armati fino al 2005, autorizzando l’eliminazione dello sceicco Ahmed Yassin, capo spirituale di Hamas, e infliggendo durissime perdite ai vertici di tutti i gruppi armati palestinesi. Eletto nelle file di Kadima e nominato ministro della Sicurezza interna, il 54enne Avi Dichter continua a giocare il ruolo di personaggio controcorrente. Nei giorni scorsi è stato uno dei pochi a chiedere di colpire obiettivi siriani. In quest’intervista a Il Giornale spiega perché Israele non potrà concedere nessun cessate il fuoco fino al raggiungimento dei suoi principali obiettivi.
«Dobbiamo innanzitutto disegnare una fascia di sicurezza di almeno cinque chilometri lungo il confine. Ci siamo vicini, ma non possiamo fermarci prima di aver eliminato ogni struttura di Hezbollah in questa fetta di territorio. Il secondo obiettivo è liberare i due soldati rapiti, e anche qui la situazione migliora. Le nostre forze speciali hanno catturato una decina di terroristi coinvolti nel sequestro, non appena finiremo d’interrogarli avremo molte informazioni utili. Il risultato determinante per la durata delle operazioni è però la distruzione di tutte le postazioni missilistiche. Fino a quando non lo raggiungeremo non potremo fermarci. Il quarto obiettivo è la messa in pratica della risoluzione 1559, ma a quello penserà la forza internazionale».
Dunque nessun limite di tempo...
«Senza la distruzione delle rampe di lancio e delle infrastrutture missilistiche non è garantita la sicurezza d’Israele. La durata della nostra offensiva è inevitabilmente determinata dal tempo necessario a raggiungere quest’obiettivo».
Il suo collega Amir Peretz, ministro della Difesa, vuole una fascia di sicurezza estesa sino al fiume Litani.
«La zona cuscinetto approvata dal Gabinetto di Sicurezza è solo di cinque chilometri. Ma l’esercito non è costretto a limitare le proprie attività a quel territorio. Per raggiungere il nostro obiettivo possiamo operare sia a sud che a nord del fiume Litani. Non ci sono limiti al raggio delle nostre operazioni. Colpiremo ovunque necessario per eliminare gli arsenali missilistici di Hezbollah».
Le operazioni sembrano ostacolate dalle scarse informazioni su Hezbollah. Da ex capo dello Shin Bet condivide le critiche rivolte al Mossad e all’intelligence militare?
«Non esiste un reale problema d’intelligence. Le informazioni su Hezbollah sono ragionevolmente buone. Conoscevamo esattamente le armi di cui disponevano e le loro capacità militari. La vera difficoltà è un’altra. Hezbollah non è una semplice organizzazione terroristica, ma un esercito di terroristi e questo li rende particolarmente difficili da combattere».
Può spiegarlo dettagliatamente?
«Hanno le capacità e le dotazioni di un esercito convenzionale, ma sfruttano le tattiche di guerriglia, evitano il combattimento faccia a faccia, si nascondono tra i civili, mirano alle nostre città. Combattere in queste condizioni richiede più tempo perché dobbiamo prestar attenzione a non colpire persone innocenti sul versante libanese».
I missili continuano a cadere su tutta l’alta Galilea. Non pensa che l’offensiva non sia soltanto lenta, ma anche infruttuosa?
«Siamo alla fine della quarta settimana di guerra, quattro settimane che mi limito a definire molto dure. L’esercito opera all’interno delle linee guida definite dal governo, minimizzando le perdite di civili e cercando di contenere le proprie. In questo contesto i risultati mi sembrano buoni».
Da ideatore delle esecuzioni mirate ritiene che l’uccisione del leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, vi garantirebbe una vittoria?
«Nasrallah è un obiettivo da molti anni. Il terrorismo non si può vincere, ma si può ridimensionare. Negli anni Settanta, non riuscimmo mai a raggiungere Carlos, ma quando “lo sciacallo” venne catturato, la sua organizzazione non esisteva più e quasi nessuno si accorse della sua fine. Detto questo, Nasrallah resta nel mirino. Qualsiasi mossa è lecita per colpire Hezbollah».
Lei vuole colpire la Siria e Damasco si dice pronta alla guerra. Il conflitto si allargherà?
«A Damasco sanno cosa significa minacciare Israele, e sono consapevoli del prezzo che pagherebbero. Il problema non sono le loro minacce, ma quello che già stanno facendo. Grazie a loro Hezbollah continua a ricevere rifornimenti e testate missilistiche. A noi basta questo.

Stiamo già pensando a come colpire per mettere fine a tutto ciò».

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