Michele Anselmi
Il consiglio è: andate a vederlo subito. Quando uscirà, il 9 giugno, tra i fondi di magazzino estivi, potrebbe restare in sala lo spazio di un mattino. E sarebbe un peccato, perché Heart of gold, il film/concerto di Jonathan Demme cucito addosso a Neil Young, sfodera una qualità visiva che ne fa un documentario non solo per fan sfegatati o nostalgici cinquantenni, nella prospettiva del toccante L'ultimo valzer di Martin Scorsese, che celebrò lo scioglimento del gruppo The Band. Del resto, i nomi coinvolti sono una garanzia: da un lato il regista americano di film come Qualcosa di travolgente e Il silenzio degli innocenti; dall'altro il cantautore canadese di ballate evergreen come Old man e appunto Heart of gold.
Il 19 agosto del 2005, reduce da un delicato intervento al cervello che lo salvò da un probabile aneurisma, Young riunì una band semiacustica per esibirsi nel tempio della country music, il Ryman Auditorium di Nashville. Concerto memorabile, arricchito di partecipazioni inattese: un'orchestra d'archi, un coro di gospel, una sezione di fiati, più Emmylou Harris, star del genere, in amichevole ruolo di corista.
D'accordo, nel frattempo Neil Young, autentico camaleonte del rock, pare già aver ripudiato la svolta country per far di nuovo ruggire le chitarre elettriche nell'arrabbiatissimo, pure un po' comiziante, Living with war, tutto pensato in chiave anti Bush. Eppure chi preferisce sonorità più rilassate e morbide, magari con tocchi suadenti di violino, banjo e pedal steel, e testi meno politicamente aggressivi, avrà di che gioire ascoltando/vedendo questo Heart of gold.
Risale ai tempi di Philadelphia la collaborazione tra i due artisti, diversi per sensibilità, eppure accomunati da una certa idea dell'America. Nel prologo, vediamo il cantante e i suoi musicisti intervistati mentre percorrono in auto le vie di Nashville, che, a onor del vero, non è la città becera e reazionaria irrisa da Altman. Subito dopo si entra nel Ryman Auditorium, dal cinema mostrato in tanti film, da La ragazza di Nashville a Honky Tonk man, e non se ne esce più. Perché è sul quel palco glorioso, caro all'iconografia sudista, che il nordico Young, reaganiano pentito, infila l'uno dietro l'altro i brani del suo cd Prairie wind. Più una serie di classici, da The needle and the damage done a Comes a time, da Human highway a This old guitar.
L'aria che si respira nella sala da concerto, dolcemente catturata dalle dieci cineprese di Demme, sa di riunione di famiglia, di ritorno a casa, a partire dalla scelta degli abiti, pensati da uno stilista di Nashville (Manuel) per rendere più caldo e southern il colpo d'occhio. Basettoni, panama in testa, giacca damascata viola e stivali da cowboy, il sessantenne e meditabondo Young parla a bassa voce, ricorda con accenti toccanti il padre appena scomparso, presenta la moglie Pegi, racconta che la sua chitarra Martin appartenne al leggendario Hank Williams, canta alla sua maniera nasale, rispolverando ogni tanto il copiatissimo falsetto. Magari sfoggia qualche chilo di troppo, come alcune di quelle vecchie glorie con le quali condivise la stagione di Déjà vu, ma l'effetto non è mai patetico; emerge, al contrario, il senso di una riappacificazione anche emotiva con le radici popolari della musica country, si direbbe il piacere di tornare in sella dopo aver visto da vicino la morte.
Poi naturalmente ci sono le canzoni, specie le gemme che scaturirono da Harvest, a ciascuna delle quali l'operatrice Ellen Kuras regala un colore, una tonalità cromatica, in modo di rendere l'esibizione qualcosa di diverso. Per dirla con Demme & Young, un «dream concert».
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