Clodia, la tentazione di Cicerone

Non si sa neppure bene come chiamarla: Claudia, Clodia, Lesbia. Certo è che non ha mai nascosto la bellezza di sentirsi puttana. È così che in troppi l’hanno raccontata. Ma davvero voi vi fidate delle illusioni dei poeti e del livore degli oratori?

Clodia, la tentazione di Cicerone

Dicono di lei che non ha pudore, che non ha regole e non si sa neppure bene come chiamarla. Claudia, Clodia, Lesbia. È la patrizia che si è fatta plebea, come il fratello, lui per intuizione politica, lei per vivere senza nobiltà. È tutto già scritto nel suo cognome, pulchra, ma non soltanto bella, molto di più: libera, scandalosa e fiera di se stessa, tanto da camminare a piedi nudi senza indossare la storia dei claudi, quella passata e quella, imperiale, che verrà. I claudi, disse il più folle di loro, Caligola, o sono geni o sono pazzi. Risparmiò le femmine. Clodia non ha mai nascosto la bellezza di sentirsi puttana. È così che in troppi l’hanno raccontata. Ma davvero voi vi fidate delle illusioni dei poeti e del livore degli oratori?

Clodia nata Claudia e per sempre Pulcra decisamente no. Non si fida. Quanta banalità c’è in quel carme numero 85? Odi et amo. Odi et amo quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior. Forse mi chiedi come io faccia.
Non so, ma sento che questo mi accade: questa è la mia croce. No, nessuno ti chiede nulla caro Gaio Valerio Catullo, giovane provinciale lamentoso, il più nuovo tra i poeti nuovi, così ardito da sbeffeggiare perfino Cesare, ma Cesare si limitò a sorridere di tanta imprudenza: i poeti non fanno la storia. Catullo con i suoi dieci anni di meno pensava di essere innamorato di una donna che ha sedotto i più grandi, da Pompeo a Cesare, senza svelare che lei, la sua presunta Lesbia, i giovani poeti li collezionava a frotte e non solo loro. Clodia figlia di uno dei tanti Appio Claudio, questo è il partigiano di Silla e conquistatore dei Traci, e moglie orgogliosamente infedele, ricambiata, di Quinto Cecilio Metello Celere, uno dei tanti Metelli, discendenti di Ceculo, figlio del dio Vulcano e di Preneste, questo in particolare irriducibile avversario di Cesare e compagno di fuga e di rancori di Catone l’Uticense. Dicono che Metello Celere sia morto avvelenato, dalla moglie. Troppo facile.

È stata accusata di qualsiasi nefandezza, senza vergogna, shameless dicono adesso in inglese, sine pudore scrivevano in latino, e tutto questo senza neppure la scusa del bisogno, di Suburre, di cloache e periferie, solo la scelta scellerata, così facile per una Claudia, di sporcarsi la carne. E giù, le chiacchiere, le allusioni, la novità della poesia. Clodia che va a cercare il piacere negli angiporti del Tevere, Clodio che se li prende giovani e vissuti, centurioni e liberti, avventurieri e truffatori, impostori che si giocano a dadi una fortuna che non hanno mai avuto. Catullo la chiama Lesbia e già questo è un paradosso. Lesbia è Saffo, l’isola dell’amore femminile, della parola che brucia, del canto che strappa l’anima. Ma Saffo era una voce. Clodia è un corpo. Lesbia è un’illusione poetica, Clodia è una condanna pubblica. Catullo l’amò. O almeno amò l’idea di lei, la favola di una donna che si concede senza appartenere, che si dà senza obbedire. Nei suoi carmi Clodia è tutto: è dea e prostituta, madre e belva, sogno e veleno. È il cuore che si spacca a ogni bacio, è la ferita che non smette di sanguinare. E crede sia amore. Ma è ossessione, è la tragedia del maschio che non sa accettare di non essere il centro. Contare i baci a mille e non fermarsi mai. Che noia, che palle. Ma i poeti immaginano vite che non sanno vivere, proprio come Catullo. “Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo, e i mugugni dei vecchi moralisti tutti insieme non stimiamoli un soldo. I giorni tramontano e poi tornano, ma noi quando cade la breve luce della vita,
dobbiamo dormire una sola interminabile notte. Donami mille baci, poi altri cento,
poi altri mille, poi ancora altri cento, poi di seguito mille, poi di nuovo altri cento.
Quando poi ne avremo dati migliaia, confonderemo le somme, per non sapere,
e perché nessun malvagio ci invidi, sapendo che esiste un dono così grande di baci”.

Non è l’amore il peccato di Lesbia. Lesbia, cioè Clodia, avrebbe calpestato una certa idea di donna, di madre, di famiglia, di costumi ereditati dai padri. Non è una matrona da rispettare. Non è neppure Cornelia la madre dei Gracchi e neppure Aurelia la mamma di Cesare, che pure a modo loro non sono state affatto così scontate, con quella forza femminile che non si ferma davanti a nulla, neppure alla gloria o alla morte dei figli. Dicono di lei che non ha pudore. Ma chi ha deciso cosa sia il pudore? Dicono che non ha regole. Ma chi ha scritto queste regole? Dicono che è una rovina, una dannazione, un enigma, una sgualdrina colta, una Medea in toga, una Saffo corrotta. La chiamano in troppi modi per non confessare che nessuno l’ha mai capita. Clodia appartiene alla prima generazione che si prende la gioventù e non se la stacca più di dosso. È successo altre migliaia di volte nella storia che si rincorre. Quelli per sempre giovani che con la scusa di sconfessare i padri si prendono le illusioni e il potere fino alla morte. È la rivoluzione, sessantottina, di Clodio, Antonio, Dolabella, o di Marco Celio Rufo, aristocratica e con l’ossessione per il potere fino a che morte non li separi. Nessuno più di loro, di questa razza eterna, ha spacciato utopie con raffinato cinismo. Sono gli eroi di una repubblica morente. Clodia no, Clodia è un’altra maledizione, più profonda e antica. Clodia svergogna Roma per tornare a Roma. È la lupa che si riprende l’Urbe. È sacra e puttana.

È esattamente questo che Cicerone, da Arpino, non poteva capire e qui si arriva al senso di questa storia. Roma fa rumore anche quando tace. È il 4 aprile del 56 avanti Cristo e la città celebra i ludi Megalenses in onore di Cibele, la dea madre che arriva dall’Asia portando con sé tamburi, estasi e sacerdoti evirati, un altro spettacolo prendeva forma. Non nei teatri, ma nel foro. Non con attori, ma con oratori. È un processo. E come sempre, quando si processa qualcuno, è Roma che processa se stessa. L’imputato si chiama Marco Celio Rufo. Giovane, brillante, ambizioso, incostante. È l’allievo prediletto di Cicerone, il più talentuoso tra i transfughi della giovinezza. Uno di quei ragazzi che portano in volto l’arroganza del futuro. Gli amici li sceglie tra i dannati: Catilina, i libertini, i complici di feste dove il potere si ubriaca. Eppure, proprio Celio, così distante dall’austerità repubblicana, ha fatto della toga un’arma. Ha processato e tentato di far condannare Calpurnio Bestia, console e padre del suo accusatore, Lucio Sempronio Atratino.La vendetta è servita. Non una vendetta politica. È molto più di questo. È teatro. È veleno. È sangue. È sesso. È Roma.

Tre accusatori: Atratino, Erennio Balbo e un certo Publio Clodio, liberto dell’omonimo tribuno. Dall’altra parte, a difendere Celio, il più formidabile trio possibile: Marco Licinio Crasso, lo stesso Celio e soprattutto lui, Marco Tullio Cicerone. L’accusa formale è un guazzabuglio di veleni e risentimenti: Celio avrebbe ucciso Dione, un filosofo egiziano in missione diplomatica. Un omicidio commissionato da Tolomeo Aulete, il re spodestato d’Egitto che cercava di tornare sul trono pagando i senatori romani più corruttibili. È una storia di intrighi, spionaggio e tangenti. Ma non è questo il cuore del processo. Tutti lo sanno. L’omicidio è solo il pretesto. Il centro di gravità è una donna. Una donna che si chiama Clodia, ma potrebbe chiamarsi vendetta, desiderio, scandalo. È la vedova di Metello Celere, sorella dell’odiatissimo Clodio, e soprattutto è la donna che ha stregato Catullo. È Lesbia. È quella che danza tra le parole, che seduce i poeti, che avvelena con lo sguardo e si diverte a confondere amore e potere. Celio e Clodia sono stati amanti. È lui l’unico che è stato in grado di lasciarla. È lui l’ingrato.

Clodia è la testimone chiave dell’accusa. Dice che Celio le ha chiesto denaro e gioielli, che glieli ha dati per amore, che lui li ha usati per organizzare un omicidio e poi ha tentato di avvelenarla. È la storia perfetta, troppo perfetta. Cicerone lo capisce. E fa una cosa geniale: non nega, non si difende, non si abbassa al livello delle accuse. Fa a pezzi Clodia.

Così trasforma il processo in una commedia piccante. Si scusa con i giudici: è festa, dice, Roma è tutta presa dai giochi, eppure loro devono restare chiusi tra le mura del tribunale a giudicare non un delitto di Stato, ma una delusione amorosa. «Siamo qui», ironizza, «perché un ragazzo ha rotto il cuore a una meretrix». Lo dicevano in giro e la chiamavano la quadrantaria, una che si vende per la cifra minima, un quadrante, un quarto di asse.

È così che da difensore Cicerone diventa accusatore. Se una donna senza marito avesse aperto la sua casa alle voglie di tutti e si fosse data apertamente al mestiere di prostituta e avesse preso l’abitudine di partecipare ai conviti di uomini a lei del tutto estranei; se tenesse un simile comportamento a Roma, nei giardini pubblici, nelle affollate spiagge di Baia; se infine non solo con l’andatura, ma anche col modo di agghindarsi e con le compagnie che frequenta, non solo col fuoco delle occhiate e col tono sboccato dei discorsi, ma anche con gli abbracci, coi baci, con le avventure da spiaggia, con le gite in barca, col contegno usato durante i festini mostrasse chiaramente la sua vera natura non di semplice prostituta, ma di prostituta insolente e sfrontata: se un giovane si fosse trovato per caso ad avere una relazione con una donna del genere, cosa ne penseresti, o Lucio Erennio (oratore romano, patrocinava la causa di Clodia contro Marco Celio)? Lo riterresti un adultero o un amante? uno che abbia voluto aver attentato al pudore di lei o semplicemente saziarne la lussuria?” Furbo Marco Tullio di Arpino. Scava nella biografia di Clodia, ma lo fa con eleganza velenosa. Allude, insinua, danza con le parole. Dipinge una donna dissoluta, circondata da giovani amanti, padrona di un giardino sul Tevere dove sceglie ogni giorno nuovi corpi da amare. Le attribuisce libertà che scandalizzano. La rende un’icona del vizio. Nessuno si stupisce. Clodia è già leggenda: è Lesbia, la musa dannata di Catullo, quella cantata e maledetta nei carmi più disperati. Cicerone la punge con ironia sottile: «Se non ci fosse di mezzo l’odio tra me e suo marito… — volevo dire, il fratello… faccio sempre lo stesso errore». Le risate, contenute e feroci, attraversano il foro. Tutti capiscono. Nessuno interviene. Adulterio. La parola è potere, e in quel momento la voce di Cicerone è legge.

Accusa Clodia non solo di essere gelosa, ma di aver costruito un impianto accusatorio per vendetta. Celio l’ha lasciata, e lei non perdona. L’aula si trasforma in palcoscenico. Le accuse appaiono come chiacchiere, le prove come pettegolezzi. Il delitto perde sostanza. Resta solo il profumo amaro di una relazione finita. Alla fine, i giudici assolvono Marco Celio Rufo. Il ragazzo lascia il tribunale con il volto pulito. Ma non è lui ad aver vinto. Ha vinto Cicerone. Ha vinto l’oratoria. Ha vinto la capacità di raccontare una verità alternativa. E Clodia? Clodia resta. Nelle chiacchiere, nei versi di Catullo, nei salotti. La vendetta sarà sua figlia. Cecilia Metella Celere, con i suoi mille amanti, e uno su tutti: Publio Cornelio Dolabella, marito di Tullia, figlia di Cicerone.

Ma perché Cicero fa tutto questo? Solo per mestiere di avvocato o per l’affetto verso Celio Rufo? Forse no, forse c’è qualcosa di più. Tutti e due vivono nel quartiere più ricercato di Roma, dove si ritrovano vecchi e nuovi ricchi. È il Palatino, isola sociale di tentazione. Cicerone è vicino di casa di Clodia e di suo fratello e delle sue sorelle. L’uomo che ha salvato la repubblica dalla congiura di Catilina ha otto anni più di lei, ma sembra molto più vecchio. I due si sfiorano, si annusano. Cicerone è sposato con Terenzia, gelosa e irascibile, ma i soldi di famiglia li amministra lei. È la sorella, puritana, della vergine vestale sacrilega Fabia, accusata di aver infranto i suoi voti con Lucio Sergio Catilina, e anche questo spiega qualcosa. Cicerone teme sua moglie, ma Clodia è una tentazione e forse lei, seduttrice seriale, non si cela e vagamente promette. Pensami quando sei da solo. Nulla di più. Ma Cicerone è notoriamente così pieno di sé che ci crede, ci prova, senza neppure sprecare la sua eloquenza. È in quel momento che Claudia, Clodia, Lesbia gli ride in faccia. È imperdonabile. Cicerone sogna solo di sputtanarla. Non si accontenta dell’orazione per Celio.

Quando Clodia non ha più la pelle che brilla e scappa da Roma per seguire il marito nel deserto dei pompeiani in fuga, Cicerone punta la sua villa, gli orti di Clodia, e li ottiene. Chiede al suo amico editore Attico di fare un’offerta al ribasso e la compra per poco. Si passa nella mano un quarto di asso e rincorre gli odori.

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