
C’è un uomo seduto a capotavola, e la stanza intera trattiene il respiro. Il vino, nelle coppe, ha un riflesso di ferro; le torce ondeggiano come se un vento invisibile passasse a contare i minuti. Una risata finta, uno sguardo abbassato, un gomito spostato di un palmo per lasciare alla mano lo spazio di cercare la lama. È un teatro antico, eppure è adesso: la Spagna trattiene il fiato, Roma tende l’orecchio. Quinto Sertorio, l’uomo con un occhio solo e un’idea troppo grande per le mappe, leva il calice. Sorride poco. Odora l’inganno come si odora l’arrivo della pioggia. Non lo teme, lo riconosce. La morte, quando ha mestiere, siede sempre vicina al sale. E un canto lusitano rimbalzò tra le sponde del Tago e del Duero.
Sertorio è un sabino, viene da Nursia, dai monti che insegnano la durezza e il silenzio. Nasce nel 123 avanti Cristo e porta addosso una genealogia di ostinazioni: la madre è cugina di Gaio Mario, il console che tiene in pugno la plebe e la disciplina dei campi. A Roma impara che le parole sono spade coperte di seta: le giri e feriscono. Nelle aule si forma giurista, in piazza oratore, ma è il fango delle marce che gli dà un alfabeto definitivo. Aquae Sextiae, la Gallia che geme, l’urto contro i Teuton, gli garantisce il primo vero battesimo. Ritorna con il corpo inciso e la reputazione cucita stretta: vale.
Cresce nell’ombra lunga di due colossi: Mario e Silla. La repubblica diventa una fune tirata da parti opposte, fa scricchiolare le travi. Quando Silla gli chiude la porta del tribunato, Sertorio non implora. Fa un passo laterale, come fanno i toreador quando capiscono la direzione della bestia. Prende la via di Spagna. Lì decide il suo paradosso: combattere Roma per salvare Roma, scorticare la tirannia sillana senza amputare l’idea della città. È la sua eresia e il suo credo.
Arriva in Hispania come propretore e capisce subito la regola che gli altri governatori ignorano: chi chiede troppo in fretta compra nemici in saldo. Alleggerisce tributi, spezza l’obbligo degli alloggi militari, impone ai suoi la disciplina che risparmia il contadino e la sua tregua. Non si compra gli Iberi e i Lusitani con monete, ma con rispetto. La voce corre più veloce dei corrieri: c’è un romano diverso. Lo chiamano “nuovo Annibale,” e non solo per l’occhio perduto e l’ombra di felino che gli allunga i movimenti. È la sua guerra a farlo cartaginese: non la linea, ma il bosco; non lo scontro in piano, ma il ciglio, la notte, l’imboscata che punge e svanisce.
Poi, come tutti coloro che sanno che il potere è anche scena, costruisce un palcoscenico. Fonda un senato di trecento in esilio, a imitazione dell’Urbe, come se Roma avesse trapiantato il proprio cervello in una terra straniera per ricordare a tutti che la legittimità è un teatro più grande della forza. A Osca apre una scuola: chiede ai capi iberici i figli, li veste di toghe orlate di porpora, li educa al latino e a Omero. Non è solo un progetto politico: è una promessa. “Vi renderò romani senza togliervi il nome. Seminerò istituzioni, e cresceranno alberi con radici doppie”.
Una cerva bianca, dicono, lo segue come un’ombra di latte. Qualcuno giura sia Diana travestita, voce di bosco che sussurra consigli. Sertorio non smentisce. Sa che ogni esercito si regge su tre colonne: pane, paga, simboli. La cerva è un vessillo che sa di sacro, una liturgia domestica. Quando appare, l’accampamento si rassicura: la dea veglia, il condottiero ascolta. Gli avversari sorridono, ma la superstizione lavora come un fiume sotterraneo: sposta la memoria, nutre il coraggio.
Roma non dorme. Manda Metello Pio, poi il giovane Gneo Pompeo, non ancora Magno, ma con l’aria di chi sa che verrà chiamato così. Sertorio li umilia sul Lauro: colpisce, si dissolve, torna dove non guardano. Sagunto resiste, ma la guerriglia logora le suole e i nervi. I proconsoli scrivono al Senato: mandate uomini, denaro, fortuna. L’Iberia, sotto Sertorio, è una mappa viva che cambia ogni notte.
Intanto l’orizzonte s’allarga. In Mauritania il romano dagli occhi diseguali prende Tingis, punisce chi gli sbarra il passo, ma sempre con quella cortesia della forza che spiazza e conquista. A Oriente, Mitridate ascolta. L’uomo del Ponto firma un patto: navi e denaro in cambio di margini nuovi per il suo regno. Forse anche Spartaco, alzatosi in catene nella penisola, manda richieste e saluti: due incendi che si guardano da lontano, sapendo che un solo vento potrebbe farne una tempesta.
Nel 77 arriva Perpenna Vento (si chiama davvero così): casato antico, borsa piena, ambizione senza parafulmini. Porta soldati in fuga dall’Italia sillana e un sorriso che promette fedeltà. Sertorio lo accoglie, perché un generale sceglie il campo con ciò che trova, non con ciò che sogna. Gli anni che seguono sono di pietra: avanti, indietro, taglia e cuci di frontiere, vittorie come martelli, sconfitte come schegge. Metello e Pompeo mettono una taglia sull’uomo con la cerva; la sua testa diventa un prezzo, la sua vita una moneta.
Sertorio resiste come resistono le città costruite sul basalto: tremano, non cedono, eppure la fatica consuma i bordi. Il senato d’Iberia è lucente, ma i legionari vogliono bottino, i capi delle tribù pretendono onori da regno, gli esuli romani invidiano il carisma che non sanno imitare. È in queste crepe che scivola il veleno. La guerra esterna si governa con le carte delle strategie; la guerra interna è un dado truccato che cade sempre sul numero sbagliato.
Quella sera, al banchetto, Perpenna è un’ombra piena. Il vino incolla le lingue. Qualcuno ricorda una profezia, la cerva, Diana, il bosco, e si domanda se i numi abbiano ancora voglia di parlare. La lama parte corta e arriva precisa. Sertorio cade senza clamore, come cadono gli alberi maturi: non gridano, si posano su se stessi. Muore non per mano di Roma, ma per il desiderio di Roma che un romano gli ha rubato di tasca.
Perpenna si incorona nel cuore. Crede che l’esercito obbedisca ai timbri e non alle voci. Va incontro a Pompeo come chi va a ritirare una dote. Trova una disfatta, rapida, igienica. Per salvarsi offre lettere: corrispondenze di Sertorio con senatori e nobili dell’Urbe, carte capaci di incendiare l’Italia come una stoppia di agosto. Pompeo le guarda. Le brucia. Per ragion di Stato, dice, perché le guerre civili, quando potevi evitarle e non lo hai fatto, tornano a reclamarti la schiena. Perpenna perde la testa che aveva usato a metà.
La storia lascia allora un’eco doppia. In Hispania, Sertorio rimane un liberatore possibile, quello che ha trattato i popoli come adulti e non come sudditi da tassare. A Roma, il suo nome è un dubbio che cammina: era un ribelle o il medico chiamato troppo tardi? Voleva tagliare la repubblica o salvarne i nervi dalla cancrena delle proscrizioni? L’eresia del suo progetto è tutta qui: creare un’altra Roma per impedire che Roma si deformi. Un senato in esilio, scuole di toga e grammatica, un esercito che non saccheggia al primo abbeveratoio: stava costruendo istituzioni come si costruiscono dighe, perché l’acqua non travolga il campo, ma lo irrighi. Non si può misurare Sertorio col righello dei vincitori. I vincitori hanno la geometria del marmo; lui aveva la geografia dei monti. Era un romano che parlava ai boschi, un cartografo del limite, un artigiano della pazienza. La sua strategia era un alveare: mille punture che ammalano il gigante. Pompeo lo capì senza confessarlo: non si sconfigge davvero chi ha convertito il territorio in alleato.
Sertorio resta lì, nella striscia di terra tra il dovere e l’utopia, a ricordarci che il potere o si veste di misura o diventa macello. E che educare i figli dei vinti è una scommessa più alta che depredarne i padri. Ha perso come perdono quelli che non possono vincere senza diventare ciò che odiano. Ma ha segnato la carta, con una matita che non sbiadisce: si può essere Roma senza essere sanguinari; si può governare una provincia come se fosse una promessa, non un magazzino; si può fondare un senato nella frontiera per tenere acceso il faro quando il porto si riempie di maree.
Il teatro chiude il sipario, ma i palchi restano caldi. Gli attori escono uno a uno, si tolgono l’armatura, ripiegano i mantelli. Qualcuno raccoglie dal suolo un pelo bianco, forse di cerva, forse di cane. Lo infila nel libro delle memorie come un segnalibro. E se domani, in una Roma che avrà altri Silla e altri Pompeo, qualcuno chiederà se sia possibile un’altra via, un’ombra risponderà da lontano, con la pazienza dei montanari: provate.
Seminate scuole. Date tregua alle case. Quinto Sertorio, anche da morto, non smette di camminare, in mezzo ai boschi, con un occhio che vede per due, insegna al futuro il mestiere più difficile: perdere bene per vincere altrove.