LA STORIA mai scritta

LA STORIA mai scritta

Carissimo direttore, ringraziandola molto per la pubblicazione (sul numero del Giornale del 10 gennaio u.s.) del mio articolo «La caduta del fascismo - Un ufficiale dell’esercito rivive i giorni della paura», rimango del tutto d’accordo con Lei che è più che giusto che le generazioni successive al periodo bellico (non soli i giovani ma persone di età già avanzata, ormai) vengano a conoscere episodi di quel conflitto, narrati da chi li ha vissuti. Lei, giustamente, dà molto spazio a queste vicende che ora, passato il traguardo del XXI secolo sembrano appartenere ad epoca lontanissima.
Io che, allo scoppio delle ostilità (10 giugno 1940) già da un anno e mezzo mi ritrovavo in divisa e con le «stellette» ne ho da raccontare...
Verso la fine dell’anno 1944 mi ritrovavo, né carne né pesce a casa mia, a Genova, vagolando senza una decente occupazione, cercando di smaltire qualche esame all’Università tra i molti che mi rimanevano da dare.
Avevo raggiunto i 27 anni di età, dopo lunga militanza nell’esercito. Come era successo che mi fossi ridotto così? Tenente di fanteria, l’8 settembre 1943, mi ero sottratto alla cattura dei tedeschi, in località nascosta, insieme al colonnello comandante il mio Battaglione ed altri ufficiali. Per noi la situazione appariva più che chiara. Il nostro Stato Maggiore aveva dichiarato un armistizio con le Forze armate inglesi ed americane. Non si doveva combattere contro di loro. In sostanza la guerra pareva finita. Ma i tedeschi, ritenendosi traditi (non sta a me, qua, dare un giudizio in merito), se la stavano prendendo con noi militari in sott’ordine, mentre i responsabili (il Re e Badoglio) se l’erano «filata» a Sud, chiedendo protezione agli Alleati. La storia ci precisa che ben 600mila nostri militari, dopo quella funesta data, vennero «internati» in Germania.
Torno a noi. Il nostro gruppetto di ufficiali si trattenne «nascosto» alcuni giorni, attendendo lo svilupparsi degli eventi. Niente di positivo, per noi. Così il nostro colonnello ci lasciò liberi per accodarci al famigerato «tutti a casa». Ci rilasciò pure un foglio di «licenza illimitata». Che tale rimase, per sempre.
Qua al Nord, una parte di italiani, non volle ritenere valido l’armistizio e si schierarono a fianco dei tedeschi, per continuare la guerra contro inglesi ed americani. Sia ben chiaro. Non fu un clamoroso «plebiscito» di una maggioranza. Fu la Germania che, per crearsi validi amici in Italia (ove stava combattendo), pre-fabbricò la Repubblica sociale italiana; ed un nuovo fascismo, risorto sulle ceneri di quello soppresso nel luglio 1943.
Come prima azione, con appositi bandi affissi su tutti i muri, venne ad intimare ai militari, sbandatisi dopo l’8 settembre, una immediata presentazione per ricostruire un esercito. Diversi vi affluirono, con l’idealistico motivo che «bisognava rimediare all’onta del tradimento del Re e di Badoglio, continuando la guerra a fianco degli alleati tedeschi. Altri aderirono per meno nobili motivi. Avere uno stipendio, una casa, sfamarsi. Così fecero molti soldati di origine meridionale, sbandati al Nord ed impossibilitati a raggiungere casa loro.
Ovvio che tutti, però, giustificarono la loro scelta, ammantandosi del nobile motivo più sopra espresso. Sostennero questo anche dopo, a guerra finita ed ancora, lo sostengono ai giorni nostri i pochi sopravissuti.
Ma la gran massa non accettò questo, forzato, nuovo ordine di cose. Io fui uno di questi. Non mi frullò per niente nella mente che avrei dovuto combattere e rischiare la vita per rimediare alle malefatte del Re e di Badoglio. Soprattutto a fianco dei tedeschi (che ci stavano brutalizzando) e poi, per una fazione già in partenza, destinata alla disfatta.
Mi sottrassi alla «chiamata», mi rifugiai sui monti, divenni un «disertore». Nell’alta Val Trebbia, un «rustico», già di mio nonno fu il mio rifugio. E vi passai un inverno «pesante» quasi da esiliato in Siberia. A mille metri di altezza, senza riscaldamento in casa, al mattino costretto a spalare la neve davanti l’uscio. Non patii la fame, ma quasi... Uno dei periodi peggiori della mia vita, peggiore più di quando, prima, mi ero ritrovato in piena guerra, sotto le bombe e le raffiche di mitraglia. Giunto alla primavera dell’anno 1944 «gettai la spugna». Il, tanto atteso, Badoglio, non giungeva mai. La maggioranza degli sbandati si era «costituita», per lavorare, per «mangiare». E mi «presentai». Fu una scelta mediata. Se lo avessi fatto subito, nel settembre precedente, con tutta probabilità mi avrebbero «ficcato» addosso una divisa che non gradivo affatto. Ora molte cose si erano stabilizzate. La Rsi aveva creato le sue «polizie» (Guardia Naz. Repubblicana, Brigate Nere e così via). Aveva pure organizzato un cosiddetto esercito regolare, comandato dal Gen. Graziani. Molti erano stati «coerciti», ma non erano mancati i «volontari» per i motivi che già ho detto.
Forse, ora, vi erano più soldati che divise ed armi. Così, dopo reiterati «bandi di chiamata» (che minacciavano anche la fucilazione), il Governo in carica si accontentava di una sola «adesione». Operazione indolore per chi la subiva, vantaggiosa per il Governo che, così, veniva a sottrarre gente che, in caso, diverso non avrebbe avuto altra scelta che infoltire le fila dei «partigiani».
Così mi «presentai» e fu una semplice formalità. Mi fu rilasciato un tesserino (non ricordo se verde o azzurro) che mi qualificava «in regola» col Governo in carica. Potevo «circolare» e, subito lo feci, rientrando a casa mia, a Genova.
Ma anche in città ci si trovava «a rischio». Quelli «in divisa» guardavano male, noi «in borghese». Ci consideravano, al minimo degli «imboscati» quando non avanzavano ipotesi di «spie del nemico». Se incontravi un conoscente, anche un vecchio amico, dovevi stare ben attento su quello che dicevi, su giudizi che volevi esprimere. Chissà da che parte «stava»?
Un episodio eclatante. In corso Buenos Ayres, un giorno venni ad incontrare un ufficiale di polizia. Prima dell’armistizio ci eravamo conosciuti e frequentati dato che venivamo, tutti i giorni, a ritrovarci ad una stessa mensa ufficiali. Mi squadrò dall’alto in basso e, subito, mi chiese: «In borghese? Sei, forse in licenza?». Scossi il capo rispondendo: «No. Sono a casa». Mi investì con una filippica di concitate parole. Io un ufficiale dell’esercito me ne stavo a casa? Perché non ero al fronte a combattere? Come lui, che era rimasto, ben fermo, al suo posto...
Mi sorbii la sfuriata come un bimbo sorpreso a rubare la marmellata... Pensando, melanconicamente che lui, che era rimasto al «suo posto», Ufficiale di Polizia, aveva la facoltà di svillaneggiarmi, senza che io potessi difendermi. Proprio lui che non si trovava assolutamente «al fronte a combattere» ma, comodamente, ben pasciuto, «foraggiato» ed al sicuro, a fare servizio in città, vicino a casa sua.
Così come venivano a trovarsi le varie formazioni militari della Repubblica sociale. O a fare i «poliziotti» o a trastullarsi in una interminabile «esercitazione» in Germania (l’esercito del gen. Graziani). Non a contrastare l’avanzata verso il Nord, degli Alleati sbarcati in Sicilia già da più di un anno.
Quello chiuse il «pistolotto» con una minaccia: «Vattene! Togliti di qua, prima che io non trascenda. Ringraziami, lo faccio in nome di una vecchia amicizia...».
Non ringraziai e mi allontanai con «la coda tra le gambe». Guarda caso, dopo la «Liberazione» rividi questo tale, sempre in divisa, sempre ligio al servizio della Patria. Quella, allora in vigore... Scantonai senza avvicinarmi a lui. Se mi fossi avvicinato a parlargli, forse si sarebbe congratulato con me, dato che mi ritrovava sano e vegeto. Ma, ove si fosse ricordato di quel famoso, ultimo, incontro, avrebbe forse, accampato motivi di «doppio gioco». Lui, era stato «costretto» allora a fare il poliziotto. Ma in tale condizione, aveva «salvato» molti italiani, una marea di ebrei... Insinuando che io, al contrario, allora, nulla avevo fatto per «salvare la Patria»... Quella giusta, ovvio, quella attuale, l’ultima per lui.

E, guai se mi fossi permesso di recriminare per la «sfuriata» che, quel giorno mi aveva fatto.
Me ne avrebbe forse, fatto un’altra proprio ora.
In sostanza lui era, pur sempre, un ufficiale di Polizia.
Io, anche questa volta un misero «borghese» che con la Polizia ha sempre torto.

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