Cronaca locale

Le storie di una Milano che non c'è più

Un centinaio di leggende note e poco note sulla metropoli lombarda in un libro che ripercorre il passato fino all'attualità

Per conoscere una città non è sufficiente avere dimestichezza con le sue vie, le sue piazze e i suoi monumenti, una città è anche un bagaglio di cultura, una miniera di avventure, racconti, se si vuole, anche aneddoti. E Milano di storie ne ha raccontate tantissime negli anni e nei secoli. E oggi la maggior parte di queste leggende sono diventate un libro che contribuisce a mettere a fuoco il passato. «101 storie su Milano che non ti hanno mai raccontato» (Newton Compton, pp.380, euro 14,90) è il frutto di un lavoro a quattro mani che Francesca Belotti e Gianluca Margheriti hanno messo insieme dopo essersi già cimentati su temi meneghini.
Ne è uscito un libro di agile e piacevole lettura che ripercorre la vita di una metropoli che annovera miti e personaggi, santi e banditi, martiri e patrioti dei quali occasionalmente viene tramandata memoria anche attraverso lapidi affisse in vari punti della città. Se ne ricava un quadro suggestivo che permette di mettere a fuoco volti e strade spesso familiari anche a chi non ci vive.
È il caso del killer seriale della Bagnera stretta, una via piccola ma centralissima proprio alle spalle di via Torino. Un nome particolare che rende omaggio alla Milano romana (Bagnera viene da Balnearia e denota il luogo dove dovevano sorgere le terme, intese come il luogo pubblico delle balneazioni). Qui si aggirava Antonio Boggia ed eravamo a metà dell'Ottocento. Il Boggia aveva seminato il terrore, era noto per uccidere le sue vittime a colpi di scure, ma aveva la particolarità di non farsi mai sorprendere né di lasciare dietro di sé tracce che servissero agli inquirenti per incastrarlo. Ci si riuscì dopo molto tempo, quando il Boggia di morti ne aveva seminati tre. E non accennava a fermarsi. Fu bloccato, ammanettato e, a bordo di un carro, trasportato per le vie della città in modo da far capire ai milanesi che il terrore era ormai finito. Venne giustiziato come si conveniva allora per gli assassini, ma la testa non fu seppellita insieme al corpo e fu consegnata a Cesare Lombroso che la sottopose a esami e, secondo le sue teorie, stabilì che aveva tutti i tratti tipici del pluriomicida.
La Milano dell'Ottocento nasconde però altre avventure, come quelle della banda della Teppa, un nome ancora oggi a noi familiare per quel sostantivo, teppista, che deriva da quel nome e serve per descrivere un giovane capace delle più pericolose intemperanze ai limiti del delitto. Avvenne che la gang ante litteram, alla guida di un certo Ciani del quale non si conosce il nome di battesimo ma il soprannome con cui era noto in città «Baron Bontemp» si era deciso a punire alcune ragazze, colpevoli di essere troppo disponibili con i soldati austriaci. Cioè con l'invasore. Si strusciavano contro i loro corpi, si lasciavano accarezzare, facevano il vezzo di concedersi, leggerezze troppo gravi da perdonarsi se fatte verso l'esercito oppressore. Così decise di allestire una grande festa e di fare uno scherzaccio a quelle ragazze di così facile accondiscendenza. A palazzo erano stati invitati, a insaputa delle fanciulle, una serie di nani, storpi e uomini deformi ai quali era stato dato a intendere che le donne della festa erano prostitute. Quando, nel bel mezzo della kermesse, al segnale convenuto, i mostriciattoli uscirono allo scoperto e pretesero prestazioni sessuali ma ne scaturì una rissa. Le autorità intervennero e alcuni furono perfino arrestati, soprattutto perché una delle ragazze era amica di famiglia del vicerè austriaco. La banda del Teppa venne così sgominata e gran parte dei suoi componenti furono esiliati addirittura in Svizzera. Da allora però teppista rimase nel linguaggio comune per indicare vandali e violenti.
L'oppressione austriaca fece però dei patrioti autentici martiri. È il caso di Amatore Sciesa, sorpreso dalla polizia in possesso di manifesti anti-governativi che incitavano il popolo alla rivolta. Fu imprigionato e torturato perché svelasse i nomi dei suoi mandanti, perché rivelasse chi gli aveva fornito quei poster, ma lui, Sciesa, uomo inflessibile e tutto d'un pezzo non si fece convincere e non scese a patti. Il giorno che lo condussero al patibolo lo fecero volutamente passare sotto la propria abitazione promettendogli la libertà se avesse rivelato quei nomi. Tuttavia Amatore, sotto gli occhi della moglie e del figlio, pur sapendo che mai più li avrebbe rivisti, non si fece convincere e commentò soltanto «Tiremm innanz». Andiamo avanti, dunque. Andiamo davanti al plotone d'esecuzione che, puntuale, sparò. Oggi su quel muro all'angolo tra via Cesare Cantù e via Pio XI dove ha sede una banca, in quella che fu la dimora di Sciesa, lo ricorda una targa con il nome sbagliato. Lo si deve al copista austriaco che non seppe scrivere Amatore e ci mise Antonio.

Da allora però nessuno lo ha più corretto.

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