Quel cane ucciso dal cecchino slavo e un bimbo in lacrime

Nino rievoca la scena che riflette il dramma dei profughi istriani

Quel cane ucciso dal cecchino slavo e un bimbo in lacrime
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La piazza non era mai stata così piena. Era una notte d'estate, in un paese dove le storie sembrano vere. Gli anziani, che da giovane lo avevano visto in mondovisione dal Madison Square Garden, quasi non ci credevano: «Giura». Nino invece era lì, davanti a loro, in carne, ossa e l'ombra dei guantoni, cinquant'anni dopo aver indossato per la prima volta la cintura di campione mondiale dei pesi medi. Quando appare, facendo lo stesso gesto del 1967 in televisione dopo la vittoria su Emilie Griffith, scende un silenzio di stupore e meraviglia e poi il fragore. Nino Benvenuti quella sera davvero si mette a nudo. Racconta i cazzotti di Carlos Monzon e quel sinistro che lo stava quasi ammazzando. Lo salva il suo allenatore Bruno Amaduzzi che getta la spugna. Nino impreca, ma con gli anni capisce. I migliori amici di un pugile sono i suoi avversari, dice, perché quando condividi il ring, ti batti e sfidi su quel quadrato, le due anime si legano per sempre. Questo vale per Emilie e per Carlos, per il discriminato e per l'assassino, per chi ha perduto i ricordi e chi muore contromano. Non li ha mai abbandonati.

Nino, quella notte di mezza estate, sognava soprattutto di tornare a casa, Isola d'Istria. È una cittadina di pescatori in mezzo all'Adriatico. «Tutto intorno odorava di pesce salato. Anzi senza quell'odore, Isola non sarebbe stata più la stessa». Adesso è slovena. «Quelli in Istria sono stati gli anni più dolci della mia vita, con la grande fortuna di crescere in una famiglia stupenda, isolana da quattro generazioni, in cui regnavano l'amore e l'armonia che mio padre e mia madre avevano trasmesso a noi figli». Sono cinque, quattro maschi e l'ultima è donna. Eliano, Nino, Alfio Dario e Mariella. Arrivò la guerra e fu incivile, violenze italiane e poi rastrellamenti titini. «La gente spariva dal mattino alla sera». Nino aveva undici anni e sentiva il rumore delle armi. È un'infanzia che si spegne in fretta. Sulla collina di fronte alla sua casa c'è un cecchino slavo. Il cane esce fuori dalla porta, Nino prova a inseguirlo, la mamma lo ferma, un sibilo nell'aria e il cane che guaisce e stramazza in una pozza di sangue. Il maledetto cecchino non ha pietà per anima viva. Escluso il cane tutti gli altri sono cattivi. Nino va via e non è una scelta. È una fuga senza speranza. È un viaggio in nave che porta da qualche parte in Italia. È l'approdo a Trieste. La memoria resta negli oggetti, nelle piccole cose. «Come alberi, ci hanno strappato le radici. A noi italiani d'Istria è stata negata la memoria, la dignità, persino l'esistenza». Quella sera, non per caso, parte una canzone di Sergio Endrigo L'arca di Noè. «Strisce bianche nel cielo azzurro per incantare e far sognare i bambini. La luna è piena di bandiere senza vento, che fatica essere uomini». Per anni è stata spacciata per vagamente ambientalista, in realtà racconta l'esodo silenzioso degli istriani italiani verso una madrepatria che non li riconosce. Nino scoppia a piangere, lacrime e singhiozzi, e si copre la faccia con i pugni.

Quando alza il viso sussurra: questo è un colpo basso. Non c'è un'immagine di quella notte. Le leggende e i sogni si raccontano a voce. Il cane esce, fa i suoi bisogni e torna verso di lui. Nino finalmente è tornato a casa.

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