Nella Lega forse manca il pensiero di un Alexis de Tocqueville e i toni un po' ruspanti a volte tradiscono le non poche buone idee politiche, ma è certo che il partito di Umberto Bossi ha segnato dieci anni di storia italiana come pochi altri. I lettori del Giornale ricorderanno quel passato ormai remoto in cui il Senatùr girava le lande del Nord in solitaria, con in mano un barattolo di vernice per disegnare le scritte sui cavalcavia insieme a Roberto Maroni. La stampa lo dipingeva come un sottoprodotto del folclore politico, un equivoco della storia. Il tempo però a volte sa essere davvero galantuomo e sa premiare la tenacia e la pazienza.
L'uomo venuto da Gemonio ha saputo trasformare un movimento d'opinione che basava la sua protesta «su basi socioeconomiche» in un partito vero, con militanti, dirigenti e sedi sul territorio. Un partito che è passato non senza difficoltà e travaglio interiore dall'ideologia secessionista a quella federalista, ha saputo resistere mille volte alla tentazione di rompere, di rovesciare il tavolo, di tornare nelle valli e lasciare metaforicamente l'Italia al suo destino, fino a diventare un partito che cambia il sistema stando dentro e non fuori dalle istituzioni. È stata la Lega a porre sul tappeto il tema dellimmigrazione incontrollata, problema che oggi - dopo le notti incendiarie di Parigi - è drammaticamente nellagenda dellEuropa. È stata sempre la Lega a lanciare per prima lallarme sulla concorrenza sleale della Cina nei confronti di altre economie che rispettano le regole del mercato del lavoro, le relazioni sindacali e le pesantissime norme anti-inquinamento del protocollo di Kyoto. Non sono mancati gli eccessi, le proposte pittoresche, più di un bislacco intervento e le parole di troppo, ma in via Bellerio non manca quello che a un partito serve per presentarsi di fronte agli elettori: identità e programma.
È vero, la riforma federalista dello Stato deve ancora superare lo scoglio del referendum confermativo, ma quello colto ieri dalla Lega è un risultato che resterà nella storia politica. In un Paese dove la politica è fatta spesso di chiacchiere, la Lega è riuscita a far parlare i fatti. Chi ha buona memoria ricorderà bene illustri e dotte commissioni di studio sulla riforma dello Stato (Bozzi) e bicamerali-trappola (D'Alema) che hanno prodotto voluminosi tomi senza arrivare a niente. Ottimo materiale di studio, ma niente di più. Dove c'era soltanto la carta, ora ci sono i voti, un Parlamento liberamente eletto che ha scelto il federalismo. Non un golpe come lo dipinge la sinistra, né una secessione camuffata né un blitz di fine legislatura passato con cinque voti di scarto. Una riforma vera, ponderata, certamente migliorabile, ma in molti aspetti più cauta e saggia di alcune idee pseudofederaliste proposte dagli apprendisti stregoni del centrosinistra.
La pazienza è una virtù rarissima, ritrovarla in un partito come la Lega è stata una sorpresa per tutti. In questa legislatura i tentativi di far saltare il banco non sono mancati, ma il partito di Umberto Bossi non ci è mai cascato, ha saputo far valere le proprie ragioni e si è dimostrato flessibile all'occorrenza. E quando gli sciacalli, approfittando del dramma personale del suo leader, già si preparavano a sbranare il partito, il gruppo dirigente ha dato una prova di compattezza insospettabile.
Cè chi ha scritto con toni fintamente preoccupati e realmente sibillini che la giornata sancita dal voto ieri è soltanto «la lunga marcia verso linstabilità». Noi non abbiamo queste portentose capacità divinatorie, però siamo abituati a guardare i fatti: la riforma del Titolo V della Costituzione fatta dallUlivo - quello sì un vero e proprio colpo di mano - ha prodotto un contenzioso record tra Stato e Regioni davanti alla Consulta. Un caos istituzionale senza precedenti.
Lingegneria costituzionale ha aspetti affascinanti, ma ciò che poi conta è la lezione politica. E allora quello di ieri è un voto che vale la maturità per la Lega e un «a futura memoria» per tutto il centrodestra che dopo mesi di lacerazioni ha trovato in Alleanza nazionale prima e nellUdc post-folliniana dopo, quella che Bossi chiama nel suo gergo «la quadra».
È la prova che quando Silvio Berlusconi insisteva nel mantenere saldo il rapporto con la Lega, aveva ragione.
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