«Giallista disilluso si innamora di un’esordiente della sua scuola di scrittura che però non stima come autrice e si mette pure in mente di vincere un premio letterario così non lo considerano più un giallista. Uno dice: uh, sai che tramone. E invece poi...». E invece poi il lettore si diverte. S’appassiona. Sorride. A tratti ride, perfino. Forse perché l’ultimo romanzo di Raul Montanari, L’esordiente (Dalai, pagg. 318, euro 18), è stato scritto toccando legno per la sua carriera di scrittore e della sua scuola di scrittura: l’ambiente editoriale viene sputtanato una riga sì e una riga no e l’ambiente editoriale non perdona.
Prendi lo Strega, ad esempio. Fulvio, protagonista del romanzo, ci si prepara come ai cento metri piani: «Chiamalo come vuoi, il Toblerone, il Vicariato, la Potta d’Oro. Oppure fa’ come noi e chiamalo semplicemente il Premio. Il Premio con la p maiuscola. Anche perché lo è». «È l’unico che può cambiare il destino di un libro e del suo autore», dico io. «Ho il soggetto e il titolo. Ma lo sai che non ne parlo mai, prima». «Fa’ un’eccezione, stavolta. Stiamo parlando del libro che deve vincere il Premio nel 2010. Deve vincerlo, capisci?».
Montanari, ma voi scrittori ci tenete così tanto allo Strega?
«Gli scrittori tengono molto ai premi. Per un motivo banale e che le sembrerà pure volgare, ma non lo è per niente: sono soldi in più. Si guadagna con i diritti all’estero, con quelli cinematografici e con i premi».
Per denaro, dunque?
«Anche perché il Premio sta a metà strada tra il consenso di pubblico e di critica, i due poli in cui si cerca di legittimazione. All’editore, che vuole che tu venda, non frega nulla che ci siano cinque critici che ti considerano il più grande scrittore italiano vivente».
Allora è per questo che Aurelio Picca se l’è presa tanto con Rizzoli per l’esclusione.
«Se è per questo Rizzoli ha toccato il fondo l’anno scorso: esclusione di Matteucci a favore di Avallone, che evidentemente aveva migliori rapporti con la dirigenza».
A questo son ridotti gli editori? Ma Picca dice che glielo avevano promesso...
«Nelle scuderie degli editori si scatena sempre la bagarre su chi partecipa a quale premio. Uno degli aspetti più sporchi del rapporto tra editore e autore è che spessissimo promettono. Tu, autore, per smuovere la situazione, dovesti farti avanti di continuo. O fare il leccaculo. O ricattare: “Garzanti ha promesso che mi manderebbero...”. Se dici solo: “Scusate, mi piacerebbe partecipare al Viareggio”, ti rispondono: “Pensiamo che non sia adatto a te”.
Perché lo hanno già promesso a qualcun altro».
Una consacrazione falsa, allora.
«Una consacrazione di vendite, quindi una consacrazione vera. Prenda Scarpa: lo Strega per lui è stato un sigillo che gli ha dato una tranquillità inimmaginabile. E duratura: quando lo vinse, negli ipermercati stava accanto a Giordano, che ancora portava la fascetta dell’anno prima. Lo Strega dovrebbe tornare alle origini».
Cioè?
«Dentro Eco e Arbasino, fuori gli esordienti. L’ammiraglia dei premi, come era con la Bellonci. Non come oggi, che uno imbrocca il terno al lotto».
Ma proprio lei, che nel romanzo non parla che di esordienti!
«Ma oggi non si cercano esordienti per farli crescere. Si cercano casi letterari, roba preconfezionata in cui ci sia la ragazza carina che si è vista (Avallone) e il belloccio (Giordano) con cui cerchi di piazzare la botta».
Anche lei contro il marketing?
«La competenza specifica nelle case editrici si è abbassata dopo l’ingresso di uomini di marketing. Ma è anche vero che a fare troppo i letterati, come faceva Einaudi, si rischiava ogni anno il fallimento. La verità è che ci sono editor che fanno accapponare la pelle, e spesso sono proprio i giovani rampanti di cui molto si parla. Ignoranti che investono sulla narrativa di genere o sul campione straniero come nel calciomercato».
Fatto sta che lei e Faletti scrivete thriller per lo stesso editore Faletti stravende e lei no. Qual è la differenza?
«Ho difficoltà a dire: non è giusto. So che tipo di discorso letterario faccio io e che tipo di discorso fa Faletti: la scacchiera è la stessa, ma c’è chi gioca a scacchi e chi a dama. Un editore tedesco mi disse: “Una volta si faceva un libro buono e si sperava che vendesse. Ora si pubblica un libro che vende e si spera che sia un libro buono”. E sa invece che mi disse una volta Aldo Busi, uno dei miei maestri?».
A proposito di Faletti?
«No, di De Carlo. “Fa librini per ragazze e incula il pubblico, quindi lo ammiro” mi disse. “Mentre non c’è essere umano che disprezzi di più di uno che ci ha provato e non è riuscito”».
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