Stress da competizione, l’insidia dei grandi cuochi

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Paolo Marchi

Alain Senderens non è il primo chef a rinunciare alle tre stelle Michelin, è «solo» il più famoso. In fondo, cambiando registro, farà quello che fece Tano Martini a Mantova una quindicina di anni, passando dalla nouvelle cuisine alla trattoria (e, ironia della sorte, la guida rossa presto tornò a premiarlo lo stesso) e non è nemmeno originale perché quest’anno in Francia hanno fatto altrettanto Philippe Gaertner ad Ammerschwihr (suo padre Pierre ricevette la prima stella nel 1938!) e René Bergès vicino Aix-en-Provence, stellato dal ’94. Tutti stressati, tutti timorosi di fare la fine di Bernard Loiseau, il tre stelle che si suicidò due anni fa perché bocciato dalla GaultMillau (ma la vedova ha sempre parlato di pesanti problemi economici senza mai accusare la critica). La Michelin detta legge, se vuoi farti un nome non puoi sottrarti al suo giudizio, ma anche se Senderens ha ragione a parlare di dittatura del pneumatico, lui, che il terzo macarons, come lo definiscono i nostri cugini, lo guadagnò a 37 anni (ora ne ha 65), ci ha campato alla grande per decenni e fino a quando il mondo non era investito da una pesante crisi economica né a lui né ai suoi due colleghi transalpini è mai venuto il dubbio che 380 euro per un pasto è una cifra che sfiora l’assurdo. Se oggi scopre che nel suo cuore c’è una cucina diversa, probabilmente è perché i mafiosi russi non bastano da soli a mantenere lo star-system di forni e fornelli che la Francia ha messo in piedi.

E se Depardieu ha portato sugli schermi ha tragica storia di Vatel, il cuoco suicida nel 17° secolo perché non arrivò in tempo il pesce fresco per un banchetto di Luigi XIV, nella nostra epoca episodi tragici e aneddoti legati alla Michelin non sono mai mancati: nel ’66 Alain Zick si sparò in testa per la bocciatura del suo locale parigino e nel 2000 Marc Meneau così commentò la perdita della terza stella: «Sono scosso come se avessi perso un figlio». Mah.

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