Studioso russo: «Così ho risolto il teorema di Fermat»

Il professor Aleksandr Ilin è sicuro di aver risolto il Teorema di Fermat. Il rompicapo che da quattro secoli tormenta le menti di tutti i matematici. Pierre de Fermat è il padre della teroria delle probabilità. E fu lui a lasciare l’enigma irrisolto, la dimostrazione impossibile: «È impossibile scrivere un cubo come somma di due cubi o una quarta potenza come somma di due quarte potenze o, in generale, nessun numero che sia una potenza maggiore di due può essere scritto come somma di due potenze dello stesso valore». Il tentativo di risolvere la congettura di Fermat è diventato un romanzo, una storia, che può riservare sorprese spettacolari. Storie di uomini e di numeri. Si può partire da Pitagora (VI sec. a. C.), che amava dire «tutto è numero», lottò con le incognite del p greco e della sezione aurea, ma legò il suo nome alla soluzione del teorema geometrico sul triangolo rettangolo, dimostrando che la somma dei quadrati costruiti sui cateti equivale al quadrato sull'ipotenusa. Ne scaturisce una formula, a2+b2=c2, in cui i tre numeri dell'equazione (simboleggiati da lettere alfabetiche) ed elevati al quadrato prendono nome di terne pitagoriche. La basilare è 3,4,5, ma gli addetti ai lavori garantiscono che le terne sono infinite. La storia approda così a Diofanto di Alessandria (III sec. d. C.), un profeta dei calcoli, che sulla sua lapide tombale volle inciso un problema, in forma di equazione algebrica, il cui scioglimento rivelava la data di morte. Lavorò sui numeri poligonali, ma soprattutto sulle equazioni diofantee, gettando un gigantesco sasso nelle piccionaie dei matematici, perché insinuò il serio dubbio che, mentre le terne pitagoriche erano lì, pronte a risolvere le equazioni con potenze in base due, se si aumentava l'esponente anche di una sola unità, passando al cubo, i numeri recalcitravano, e le soluzioni intere svanivano come neve al sole. L'opera di Diofanto, in greco, si intitola Arithmetica. Nel 1621 il filologo Bachet la pubblica e Pierre de Fermat scrive a margine della sua copia che lui avrebbe, sì, dimostrato scientificamente la bontà dell'intuizione diofantea, ma che l'esiguità dello spazio bianco non gli consentiva di trascriverla. C'è da crederci, se ci vogliono quattro secoli e duecento pagine di trattato perché Andrew Wiles, matematico di Cambridge, riveli la sua dimostrazione del problema, definito, con una sfumatura drammatica, Ultimo teorema di Fermat. I matematici, però, fanno le pulci a Wiles, scovano un bug nel suo castello di calcoli, finché (la notizia è fresca di giornata) Aleksandr Ilin, professore di matematica applicata all'università di Omsk (Siberia occidentale) proclama di poter mettere la parola fine al millenario rebus, rifacendosi a Pitagora e condensando la dimostrazione in tre righe, pubblicate su Novaya Gazeta.

Storia chiusa? No di certo, perché la comunità scientifica ha a disposizione due anni per avvalorare o confutare la scoperta. Che è la dimostrazione ultimativa di un'impossibilità, l'indicazione di un vicolo cieco, la cancellazione di uno sforzo senza sbocchi.

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