Politica

Su Kabul lezione dalla storia

Il ministro D’Alema dedica sguardi sufficienti al suo prossimo, che deve parergli ogni volta incapace di capire quanto lui invece comunque capirebbe. Anche riguardo ai casi afghani, quando col suo tono più saputo dice «sciocco strumentalizzare». Ma intanto quel contorno di furbi e travestiti di ogni sorta ormai al governo, nonché comunisti falliti, si sgomenta e gli resiste. Ed eccoli i governativi più molesti con Luxuria battere i piedi, ormai in tormento isterico, mentre il povero Prodi si dispera, e D'Alema ammaestra alla pace una Nato già in guerra. Predica tanto più ridicola, tra l'altro considerando i molti tagliagole con cui si ha a che fare in Afghanistan. Come se quelle anime di atavici, aduse a scannarsi tra di loro appena non scannano bastanti russi, indiani o inglesi, fossero da trattare coi Pacs. E dire che presso gli afghani gli italiani potrebbero vantare, dall'Ottocento, fama ben altrimenti utile, grazie al napoletano generale Paolo Avitabile. Il cui nome ancora pare sia usato dagli abitanti di Peshawar come minaccia per i bambini.
Nato il 25 ottobre del 1791 egli era stato artigliere di Murat; e alle miserie della sconfitta aveva cercato rimedi nei commerci. Finiti male però, tra naufragi e pesti che lo decisero ad andare in Oriente. Là dove il re di Persia reclutava i reduci delle guerre napoleoniche. Rimase al suo servizio per sei anni: e riuscì a domare le tribù ribelli della frontiera. Ma per convincerli non usò metodi congeniali all'onorevole Luxuria. Adoprò piuttosto ecatombi e terrore. Gli guadagnarono di venir chiamato «eletto della Cristianità» dallo Scià, e insignito della decorazione della Corona e del Leone e del Sole. Una fama di spietatezza lo precedette a Kabul e fin nel Punjab, dove il maharaja Ranjit Singh, riconobbe i suoi talenti sanguinari. Lo assunse, gli affidò l'artiglieria e una provincia. Prima di arrivare a Peshavar il nostro mandò avanti dei carri coi pali di legno che fece piantare davanti alla città, tra le risa di scherno degli abitanti. Ma nessuno rise allorché il giorno dopo vi pendevano impiccati cinquanta ribelli. A bugiardi e spie fece poi tagliare la lingua e quando arrivò un santone, che protestava, la tagliò pure a lui.
Il nostro malommo e generale era del resto di carattere tale che volle la sua guardia del corpo fatta dai parenti di afghani o khiberiti fatti squartare o impiccati per suo ordine. Tuttavia proprio per questi suoi talenti piacque agli afghani, come del resto agli inglesi. Un loro tenente lo descrisse uomo robusto, e alto, piacevole, barba lunga, in splendida veste verde con lacci e i bottoni d'oro, e la sciabola di un principe. Pare fosse ospitale per quant'era spietato. Inoltre salvò gli inglesi in ritirata da Kabul. Ma lo prese la nostalgia di godersi i frutti sanguinolenti delle sue ruberie. A Londra venne onorato con un solenne banchetto alla East India House. E finì rovinato dai buoni sentimenti: nel suo Paese, dove era tornato, avvelenato forse dall'amante della giovane moglie ch'aveva preferito agli harem. Ora non dico che Avitabile possa o debba imitarsi. Ma il ricordarsene è auspicabile. Perché in quelle valli desolate ben poco è cambiato. E i talenti effeminati di questo governo sono non meno perniciosi.

La sua viltà avrà l'esito di attirare gli attentati sui nostri alpini; intanto già ne è sortito un rapimento.

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