Su ripresa e tasse l’allarme rosso della Borsa

Chi avesse investito cento euro all’inizio dell’anno nella Borsa italiana, oggi si troverebbe in mano poco più di 110 euro: il doppio di quanto sta avvenendo per il listino principale americano. Bene? Male? Dipende. Se la crescita del dieci per cento la confrontiamo con l’andamento dell’economia ci sarebbe da brindare. La produzione arretra, la disoccupazione sale e l’inflazione è praticamente a zero. Certo il dieci per cento è un rendimento da mettere in relazione con il rischio che si assume oggi giorno a mettere i propri risparmi in Borsa. Eppure il dieci per cento che hanno reso i nostri cento euro, non ha alcun significato. In fasi come questa è più che mai scollegato dalla nostra salute economica. È come un termometro che non funziona bene. L’andamento dei mercati finanziari in questi mesi ha rappresentato una speranza ed una paura.
La paura ha avuto due fasi. La prima, quella che si è alimentata per tutta la fine del 2008, era che il sistema finanziario mondiale saltasse: si temeva che la nostra rete intrecciata di banche e intermediari non fosse più in grado di rispondere alle proprie obbligazioni. La seconda paura è stata quella che ha generato i vistosi crolli dei mercati dei primi tre mesi del 2009: il contagio, ormai arginato sulle banche, si è temuto fosse mortale anche per il sistema produttivo e industriale. I mercati fino a marzo del 2009 si sono avvitati in questa spirale che si autoalimentava.
Pian piano hanno avuto effetto i piani di rassicurazione della politica globale. Ma soprattutto si è bloccata la grande paura (come in tutte le epidemie si diffondono anche timori irrazionali) della fine del nostro sistema capitalistico. Un importante banchiere italiano alla fine del 2008 ci diceva: «Il mio problema non è capire su quali titoli investire, ma in quale banca depositarli». Tanto per dare l’idea di come la malattia avesse toccato il cuore del sistema. E soprattutto come gli operatori anche più qualificati non sapessero leggere quello che stava succedendo sotto i loro occhi. La speranza si è dunque subito intrecciata con i primi segnali di ripresa del sistema bancario. La speranza che ci fossimo trovati solo in una grande pausa. Non in una bolla generata da anni di quattrini facili. Ma semplicemente in una pausa di un percorso infinito di crescita a due cifre. I mercati hanno rialzato la testa. Hanno recuperato in pochi mesi perdite favolose. Abbiamo assistito a rialzi mai visti in precedenza. C’è chi ha teorizzato che il mercato abbia rimbalzato velocemente proprio in virtù della velocità con il quale era sceso. C’è chi ha messo in guardia dall’irrazionalità di un così repentino cambio di fronte. La speranza che il peggio fosse passato è stata celebrata proprio da coloro che il peggio lo hanno alimentato.
Resta da capire cosa succeda oggi. Non già cosa avverrà domani, che lasciamo agli indovini. Proviamo a vedere. Il caso americano, dove i fenomeni finanziari come le porzioni a tavola sono giganti, è chiaro. Il prodotto è cresciuto grazie ai quattrini degli incentivi pubblici. Il Wall Street Journal scherzando sulle rottamazioni delle auto a stelle e strisce ci ricordava nei giorni scorsi che sono talmente generose e diffuse che permettono ai golfisti di portarsi a casa un golf cart (una macchinetta elettrica) senza sborsare un dollaro. Ma quando a settembre sono venuti meno si è rifermato tutto e i golfisti hanno ovviamente smesso di comprare golf cart di cui non hanno granché bisogno e gli automobilisti (più seriamente) hanno preferito risparmiare piuttosto che cambiare l’auto. La morale è molto semplice. Gli interventi degli Stati, dopo le prime indispensabili rassicurazioni al mondo bancario, si sono concentrati su una lunga serie di aiuti al consumo. Insostenibili nel lungo periodo per le casse pubbliche. Fuochi di paglia che hanno dato un sollievo nel gelo della crisi. Ma che non ci potranno riscaldare per sempre.
Il ragionamento vale anche per le nostre faccende. Certo il mercato borsistico italiano è meno specchio del Paese di quanto lo possa essere quello americano. Sul nostro listino prevale il peso delle banche e di grandi imprese che hanno una buona relazione con la politica. Ma il senso di quanto sta avvenendo è il medesimo. In assoluto in Europa si è messo sul piatto meno di quanto abbiano fatto negli Stati Uniti. E l'Italia è stata piuttosto attenta a non «sbracare». C'è anche una ragione di contesto: le nostre banche non erano così malmesse grazie alla loro forza nel gestire e farsi ben pagare la gestione dei depositi da un popolo di risparmiatori. E la nostra industria è per lo più piccola e piccolissima e dunque difficilmente aiutabile con misure una tantum e ad hoc. Ecco. Questo è il punto. Dalle nostre parti una soluzione già scritta esiste: e si chiama libertà per le imprese di meglio disporre dei propri quattrini. Ridurre le imposte sulla produzione (o in modo più costoso ridurre il costo del lavoro per via fiscale) ci permetterebbe di generare maggiore ricchezza. Sono queste misure che rimangono nel tempo. Non sono fuochi di paglia. Si diceva, un tempo: è meglio insegnare ad un Paese sottosviluppato come coltivare un campo piuttosto che fornirgli i prodotti agricoli. Per far riprendere l’economia è più opportuno ridurre le imposte, che elargire un aiuto pubblico. Alcuni Paesi in Europa l’hanno capito e lo stanno facendo: Francia e Germania per prime. Dobbiamo seguirli.

Tanto per dare un numero. Il costo per la totale abolizione dell’odiata Irap è inferiore ai trasferimenti, ai sussidi che lo Stato fa alle imprese in conto aiuti pubblici. Non sarebbe male iniziare proprio da qua. E le Borse seguiranno.

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