«Subito strade e il Ponte

Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture, una bella fetta del piano anti-crisi del governo la riguarda direttamente. Come si è arrivati ai 16 miliardi per le opere pubbliche annunciati al G20?
«Ho dato un appunto al premier Berlusconi e a Tremonti nel quale spiegavo che per partire con la prima tranche di opere necessarie al Paese servivano 16,6 miliardi di euro. E queste risorse arriveranno con il Cipe del 21».
E sono sufficienti le risorse che metterete in campo venerdì?
«Ci sono anche i soldi dell’accordo fatto poco tempo fa con la Banca europea degli investimenti, il project financing e la Cassa depositi e prestiti. Risorse che ci permetteranno di partire con i lavori della prima tranche di opere».
In che tempi e quali sono le opere che verranno finanziate con le risorse del piano anti crisi?
«Tra cinque o sei mesi possono partire o comunque potremo continuare e terminare alcune opere che avevamo iniziato. Stiamo parlando del Mose a Venezia, il raccordo Parma-La Spezia della Cisa, la Milano-Mantova, l’autostrada Civitavecchia-Livorno, la BreBeMi, e poi una parte del Ponte sullo stretto di Messina».
Quindi sta dicendo che il Cipe servirà anche a finanziare la prima azione concreta per il ponte?
«Sì. Parte dei soldi, 700 milioni, serviranno ad acquistare i terreni. Il problema delle opere pubbliche è però quello dei tempi. E l’annuncio che snelliremo le procedure per realizzare le opere pubbliche è stato musica per le mie orecchie».
Avrebbe detto lo stesso da ministro dell’Ambiente?
«Lo sostenevo anche da ministro dell’Ambiente che i tempi vanno accorciati. Venivo criticato dai Verdi, che gli italiani hanno escluso dal Parlamento: il problema è che in Italia serve più tempo a iniziare un’opera che a costruirla realmente».
Quindi niente più controlli?
«No, il contrario. Servono controlli anche più severi, ma non serve a nulla la valanga di autorizzazioni che bisogna fare oggi: regioni, comuni, province, conferenze dei servizi composte da 17 o 18 enti. E se poi a una riunione ne manca uno, si rinvia tutto. Questo, non dimentichiamolo, è il Paese che negli anni Settanta decise per legge che non bisognava più costruire opere pubbliche. Con la legge Obiettivo il precedente governo Berlusconi ha invertito la tendenza, ma sono rimaste criticità. C’è il caso dei quattro termovalorizzatori in Sicilia ad esempio».
Cosa è successo?
«Dopo quattro anni di accordi con i comuni e trattative è arrivato il governo Prodi e li ha bloccati. Intanto i privati avevano investito e perso soldi. Una storia infinita che se non trova soluzione rischia di far piombare la Sicilia in una situazione simile a quella della Campania».
Ha detto che la tranche di opere da finanziare al prossimo Cipe è la prima. Ce n’è un’altra?
«Sì, le opere pubbliche in programma sono tante. La Torino-Lione. Nei prossimi giorni andrò a incontrare i sindaci della zona. Poi le opere legate all’Expo».
In tutto quanto valgono le infrastrutture che volete realizzare?
«In tutto 44 miliardi. Oltre ai 16 del Cipe ce ne sono altri 15 della Bei, che in parte serviranno a finanziare la seconda tranche».
L’investimento da 16 miliardi dovrebbe servire anche a tamponare gli effetti della crisi economica. Pensa sia realistico?
«La realizzazione di infrastrutture fa bene all’economia ed è un fatto automatico, basti pensare che solo con questo Cipe, con i 16 miliardi di investimenti, faremo salire il Pil nazionale dello 0,7 per cento. E poi ci sarà il beneficio delle infrastrutture realizzate, che sono indispensabili a rendere competitivo e quindi rilanciare il nostro Paese».
Dice che recuperare il gap con gli altri Paesi europei è un’impresa più difficile?
«All’inizio degli anni Settanta, l’Italia era al terzo posto al mondo per le infrastrutture. Ora al diciannovesimo. La nostra economia paga un costo altissimo. Noi importiamo quasi tutte le nostre materie prime ed esportiamo i nostri prodotti. Avremmo dovuto puntare tutto sulla realizzazione di opere per i trasporti».
E invece?
«C’è stata, a partire dalla metà degli anni Settanta, un’ubriacatura, dalla quale siamo usciti nel 2001.

Ora dobbiamo recuperare, anche per tutelare settori chiave per l’Italia come il turismo. Non si può più puntare solo sulle bellezze e sulla cultura. Se arrivare in Italia resterà difficile, subiremo sempre più la concorrenza di Paesi che offrono servizi migliori».

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