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«Sul blitz anche i pacifisti dicono sì»

«Richiami fra quindici minuti, non posso parlare ora, sono in macchina in mezzo a una manifestazione, qui bruciano pneumatici». Tom Segev, celebre e controverso storico israeliano, è al volante a Gerusalemme Est, parte araba. Qui, come in molte cittadine dei Territori palestinesi e in alcune capitali del Medio Oriente, la popolazione è scesa in piazza per protestare contro l’operazione israeliana «Piombo fuso» in corso nella Striscia di Gaza. Segev, editorialista del quotidiano della sinistra Haaretz, è stato spesso accusato d’essere troppo pro-palestinese. Ma, come molti nel Paese, in queste ore appoggia senza mezzi termini l’azione militare contro Hamas. «Gli israeliani non credono più nella pace», dice dopo essere finalmente arrivato sul Monte degli Ulivi, da cui si gode una splendida vista su Gerusalemme, simbolo del conflitto israelo-palestinese.
L’operazione militare dell’esercito a Gaza ha il sostegno dell’intera popolazione israeliana?
«Sì, parliamo veramente della maggior parte degli israeliani, destra e sinistra. Ci sono pochissime voci contrarie all’interno della sinistra radicale. Quest’azione è qualcosa che la popolazione ha chiesto in passato al governo. I cittadini sono diventati impazienti per via del continuo lancio di razzi Qassam da Gaza sulle comunità del Sud. Per questo c’è un sostegno molto vasto. Al momento. Voglio infatti ricordare che anche nel 2006, nei primi giorni del conflitto contro Hezbollah, in Libano, c’era un importante appoggio della popolazione. Poi, con il passare del tempo, gli israeliani ci hanno ripensato».
Cosa fece cambiare loro idea?
«La guerra divenne lunga. Gli israeliani sono “viziati”: preferiscono i conflitti corti. Nel 2006, città e civili erano sotto tiro, molte persone furono uccise. Per la popolazione la guerra stava andando male. Anche oggi, quindi, la situazione può velocemente cambiare. Se l’operazione sarà breve e avrà successo non ci saranno cambiamenti nell’opinione pubblica. Altrimenti, la popolazione farà in fretta a dare la colpa al governo. Più il tempo passa più si solleveranno voci contro, diranno: “Non ci sta portando da nessuna parte”. Ora però il sostegno c’è».
Che effetti avrà l’azione sugli equilibri interni?
«Il panorama politico sono le prossime elezioni, a febbraio. Non si può ignorare il fatto che il ministro della Difesa Ehud Barak sia anche il leader del Partito laburista e che sia messo male nei sondaggi».
Perché anche la sinistra, che ha costruito la sua piattaforma politica sul processo di pace, sostiene l’operazione militare?
«Negli ultimi anni la maggior parte degli israeliani ha perso la speranza, vuole ancora la pace ma non crede più nella pace. Il fatto che i razzi Qassam piovano giorno dopo giorno sulla piccola città di Sderot non può essere tollerato. Le persone hanno perso la fede nella pace e nei negoziati. Pensano che l’unico modo per arrivare a negoziati sia attaccare Hamas: fermarli, almeno per un po’. I razzi non hanno come obiettivo installazioni militari, ma città. Chi se lo poteva permettere ha abbandonato Sderot. I più poveri non possono andare al lavoro, a scuola, i loro appartamenti non hanno protezioni. Ecco perché anche la sinistra sostiene l’operazione. C’è inoltre uno spostamento dell’elettorato a destra e questo favorisce Benjamin Netanyahu, leader del Likud, nelle elezioni di febbraio».
In che cosa crede la popolazione?
«Gli israeliani sono diventati fatalisti sul futuro e sulla vita. Sono molto pessimisti e critici».


C’è paura in queste ore in Israele? Esiste il timore che anche il fronte Nord possa aprirsi con un attacco di Hezbollah?
«No, per ora la sensazione è che le cose stiano andando bene».

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