Sul «Cargo» di Salvatores vagano i pirati dell'ecologia

Da domani nelle sale, negli Stati Uniti il film con Kurt Russell ha incassato meno del previsto

Michele Anselmi

da Roma

La salsedine, la ruggine, il sudore. E ancora: silenziosi pirati all'arrembaggio e scafati lupi di mare, barili di rifiuti tossici e armi di contrabbando, l'Europa dei flaccidi e l'Asia degli sfruttati, tempeste scespiriane e albe nebbiose. Non si sa ancora come si chiamerà: forse Cargo, forse Mare aperto, forse Naima, come l'eroina di Nirvana e un mitico brano di John Coltrane; ma è certo che si farà. Dopo Quo vadis, baby?, svelto noir in digitale all'ombra delle torri bolognesi, il capitano coraggioso Gabriele Salvatores salpa col suo cinema al maschile verso più larghi mercati, sempre che la parola - mercati - non gli suoni come una parolaccia. Al quotidiano comunista Liberazione ha spiegato infatti, coloritamente: «Sarà una sorta di Master & Commander nel culo del mercato globale».
Cancellato il misterioso western propostogli da Terrence Malick e accantonato per ora il thriller londinese La scala di Dioniso, il cineasta milanese sta dunque lavorando al suo progetto più ambizioso. Un film da girare in inglese, quasi interamente in esterni, sopra e dentro una «carretta dei mari», con effetti speciali e scene d'azione. Si parte dalla spiaggia di Alang, nel golfo indiano di Combay, laddove migliaia di uomini-formica smontano a mano con seghe e fiamme ossidriche quei fatiscenti mercantili fatti arenare, per arrivare, circumnavigando l'Africa e lambendo le Azzorre, al Mare del Nord, posto ideale per far affondare, a cinquemila metri di profondità, un carico illegale, insieme alla nave che lo trasporta.
Spiega Salvatores: «Oggi nel mondo ci sono almeno quarantamila navi che cambiano continuamente bandiera, riparate in viaggio, piene di clandestini del mare, senza soldi né autorizzazioni. Vorrei trasformare in eroi questi derelitti, condannati dalla vita a un lavoro sporco. L'unico vero “luogo” avventuroso, ormai, sta fuori dalle acque territoriali, a oltre dodici miglia dalla terra ferma». Naturalmente Master & Commander è solo una suggestione cinefila. In «Naima» (così potrebbe chiamarsi la nave) non vedremo velieri settecenteschi armati di cannoni, bensì carghi da ottomila tonnellate, pieni di rattoppi, coi motori sbuffanti a un passo dall'avaria, tenuti in vita da marinai pakistani. Però, al pari di quanto accade nell'epico film con Russell Crowe, ci sarà una sfida marinara all'ultimo nodo, senza esclusione di colpi, con una nave concorrente più veloce e potente, decisa a impadronirsi del funesto carico. Allo stesso tempo, come non pensare, per atmosfera, intreccio e senso dell'amicizia virile, a quel bel romanzo di Simenon, Cargo, appena ristampato da Adelphi?
Scritto insieme al padovano Umberto Contarello, il film segna l'inizio della collaborazione tra Salvatores e Raicinema, dopo un lungo sodalizio con Medusa. Ma siccome serviranno molti soldi (la rivista Screen Daily ha parlato dal Marché di Cannes di un possibile budget da 20 milioni di euro), è chiaro che il produttore Maurizio Totti, socio storico del regista, dovrà darsi parecchio da fare nei prossimi mesi per coinvolgere almeno tre partner internazionali e un distributore americano. L'idea è di partire con le riprese nel maggio 2007, in modo da sfruttare la stagione buona.
Attori di grido? Nessuno, alla «Colorado Film», fa nomi. Troppo presto. Ma non è un segreto che Salvatores guardi a Jeremy Irons, magari dotato di folta barba come in una recente pubblicità della Fiat, nel ruolo di uno dei due protagonisti: un fascinoso capitano irlandese, estenuato e pessimista, reduce dalla prigione, forse gay, insomma una versione riveduta e corretta del conradiano Lord Jim (l'altro è il secondo ufficiale, più concreto e intraprendente, l'amico di sempre che organizza l'ultima missione). E chissà che non ci sia posto anche per un italiano, magari un Sergio Rubini o un Antonio Albanese: agli autori non dispiacerebbe inserire nella ciurma un marinaio siciliano, quasi un cugino povero del «pianista sull'oceano» di Baricco.
Si può capire l'entusiasmo di Salvatores per l'impresa alla quale si sta dedicando. Ex sessantottino con un piede nel sistema e uno nei centri sociali, il regista di Mediterraneo pratica da sempre un cinema di forte impronta generazionale, dai tratti nostalgici/arrabbiati, più «rock» che «lento», intessuto di insegnamenti buddisti ma anche di riferimenti ideologici. Infatti sostiene: «Non demonizzo l'ideologia. Significa semplicemente seguire un'idea, anche tra mille contraddizioni». Le contraddizioni del no-global terzomondista ben piantato nell'industria del cinema, sia pure con una riconosciuta originalità espressiva.

Nella stessa intervista a Liberazione, si legge: «Trovo che il lavoro sui generi cinematografici sia fondamentale e molto utile per noi europei, malati di autorialità. Mai dimenticare che il cinema è un'arte popolare. Come diceva Brecht, bisogna essere un passo avanti al proprio pubblico. Non tre però, come Michael Haneke». Chissà se vale anche per le onde dell'oceano.

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