Cera una volta la rivoluzione dInternet e Facebook. Ora bussa alle porte la rivoluzione vera. Quella degli ultras, del caos e degli eccidi. Chiamatela se vi piace rivolta del pallone, ma dietro quel nome suggestivo cè il sangue di Port Said, lecatombe da 74 morti e centinaia di feriti consumatasi dopo la partita di domenica sera tra la squadra locale dellAl Masry e quella cairota dellAl Ahly. Liquidare tutto con lidea di una tragedia da stadio o da folle impazzite sarebbe troppo semplice. I Fratelli Musulmani ne approfittano per accusare generali e polizia di aver assistito al massacro nella speranza dimprimere una svolta autoritaria.
Gli ultras, da sempre capofila della protesta e degli scontri, la sfruttano per risvegliare piazza Tahrir, ridar fiato alla rivoluzione scippata. La rivoluzione che - invece di regalare il potere a chi cacciò Mubarak - ha consegnato il Paese alle forze islamiste. Ma ne approfittano anche i militari, consapevoli che peggio andranno le cose più ci sarà bisogno di carri armati e fucili. In tutto ciò gli unici a rischiare la poltrona sono, per ora, il premier provvisorio Kamal El Ganzouri e il ministro degli interni Mohammed Ibrahim. Nominati dai militari, privi di sostegno politico, detestati sia dalla popolazione sia dai Fratelli Musulmani impazienti di sostituirli con un proprio esecutivo, i due si ritrovano sommersi dalle accuse. La loro unica reazione è la defenestrazione del governatore e del direttivo della Associazione Calcio. Mentre offrono quelle teste inutili i parlamentari dei Fratelli Musulmani denunciano il grande complotto ordito dai loro mentori, dai signori in divisa che li manovrano.
A detta del presidente del Parlamento Saad el Katatni (dei Fratelli Musulmani) il premier e il ministro dellInterno «mettono in pericolo la rivoluzione». «Questo è un crimine assoluto, rientra nello scenario con cui si tenta di trascinare lEgitto nel caos», aggiunge il collega di partito Abbas Mekhimar. Fuori dal palazzo gli ultras mobilitano, intanto, migliaia di persone, convergono intorno al palazzo del ministero dellinterno, sfidano i lacrimogeni e le forze antisommossa. A guardarli in faccia sono della stessa risma di quelli che domenica hanno massacrato a colpi di coltelli e bastoni i loro avversari: bulletti e mezzi delinquenti trasformati in protagonisti dalla necessità rivoluzionaria, ma gli scontri sono veri. Ieri sera sono stati contati duecento feriti e il bilancio minaccia di peggiorare.
Ovviamente nellepica di piazza Tahrir gli ultras cairoti dello Zamalek e dellAl Ahly sono gli ultras «buoni», quelli sempre alla testa delle manifestazioni. Quelli dellAl Masry, invece, sono gli amici del vecchio regime e dei militari. Sono logiche da stadio, prive di qualsiasi valore al di fuori di quello delladrenalina e dellodio. Ma quando bisogna stuzzicare una piazza sonnacchiosa e frustrata tutto fa brodo. E così ecco piazza Tahrir risvegliarsi dalla depressione, dimenticare di aver sacrificato decine di giovani vite e un anno di rabbia per ritrovarsi fregata dagli accordi sottobanco tra islamisti e militari. La collera per la strage di Port Said è il carburante per riempire la piazza, spingerla a sfilare dietro ai signori delle curve, dietro ai capibranco dellAl Ahly reduci da Port Said, dietro ai Cavalieri Bianchi dello Zamalek protagonisti in questi mesi di decine di battaglie urbane. Anche oggi migliaia sfileranno al Cairo per chiedere di processare il maresciallo Hussein Tantawi e gli altri membri del Consiglio supremo delle forze armate, oltre che di arrestare Ganzouri e Ibrahim.
Eppure sulla scacchiera del caos non si vedono vincitori. I Fratelli Musulmani rischiano, nonostante la vittoria elettorale, di perdere credibilità e autorevolezza ancor prima di cominciare a governare. I militari, consapevoli di non aver molto da perdere, rischiano di farsi tentare dal braccio di ferro.
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