Luca Telese
da Roma
Da ieri il «cosismo», inteso come categoria politologica interpretativa della politica italiana torna a tenere banco nel dibattito, con buona pace di chi ha perso il conto delle «Cose». Infatti, dopo la Cosa «postcomunista» partorita dalla Bolognina e i mille cloni successivi, sta nascendo una nuova Cosa, una Cosa «democratica». Auguri, ma per capire le possibilità di successo, urge un riassunto di tutti i precedenti.
Eccolo. Chissà che diavolo aveva in mente, Achille Occhetto, quando nel 1989 lanciò il suo nuovo progetto, disse che «andava oltre la forma partito» che era molto di più, appunto «una Cosa». Pensava cioè che quel modello avrebbe superato strutture tradizionali, riti, apparati, che sarebbe stato inedito e nuovo. Andò a finire diversamente, e la Cosa divenne il luogo comune della provvisorietà italiana, la febbre endemica del vorrei-ma-non-posso di tutti i riformismi italiani. Partiti che cambiavano insegna ed etichetta, simboli, ragioni sociali, collocazioni iniziarono a qualificarsi come «Cose». La parola divenne un modo di dire, un cartello «Lavori in corso», nei cantieri sempre incompiuti del bipolarismo italiano. Fiorì persino una letteratura «cosologica»: Nanni Moretti girò un documentario sulla fine del Pci che aveva quel titolo, La Cosa. E la giornalista Chiara Valentini scrisse un saggio sulla Svolta che si intitolava Il nome e la Cosa (Feltrinelli 1990). E poi nel 1991 il Pci divenne Pds, e cinque anni dopo aprì un nuovo cantiere,stavolta battezzato da Massimo DAlema, che con un colpo dala partorì un nome originalissimo: «Cosa due». Indicava il nuovo partito nato inglobando i cosiddetti «cespugli», i partitini delluno virgola, sparì la «P» di partito, nacquero i Ds. Ma anche la «Cosa due» non era abbastanza «Cosa», non abbastanza socialista, almeno. Un dirigente come Antonio Macaluso scrisse persino un pamphlet (a quattro mani con Paolo Franchi) sul fallimento del progetto dalemiano, intitolandolo - ovviamente - Da cosa non nasce cosa.
Fiorirono le emulazioni: cosine, e cosette, qua e là nella politologia italiana. «Cose» oggi estinte, come il leggendario «Trifoglio», che doveva unire Repubblicani, socialisti e cossighiani (e morì prima di nascere dopo una intensa stagione mediatica). E nacque persino una cosuccia «di destra», messa su da Gianfranco Fini e Mario Segni: esordì alle europee del 1999, con il simbolo indimenticato dellelefantino, racimolò uno striminzito 10,3% e scomparve nel nulla. Recentemente cè stata persino una «cosa nera», tre liste federate da Alessandra Mussolini in Alternativa sociale. Mirabile percorso cosistico. Alle politiche erano già quattro: Mis di Rauti, nuovo Msi di Saia e Fiamma, mentre Forza nuova e Fronte nazionale restavano con la Mussolini (per poi dividersi alle comunali). Unaltra «cosa socialista» tra Nuovo Psi e Sdi è morta in culla, e il Nuovo Psi si è a sua volta scisso perdendo i Socialisti di Bobo Craxi. La prima maledizione delle «cose»? Producono sempre più partiti di quelli che uniscono.
Ma la vera fortuna del fenomeno è a sinistra: dopo la «Cosa due» (che aveva annesso ai Ds comunisti unitari, diniani, laburisti e cristiano-sociali) si pensò una «Cosa tre» per assorbire lo Sdi, che invece si sottrasse per andare a costruire unaltra Cosa con i radicali (anche questa appena abortita, la Rosa nel pugno). Scomparsi nel nulla i «Progressisti» (simbolo del centrosinistra del 1994), nel 1996 iniziò il tormentato filone delle «cose Uliviste». Nel 1997 Romano Prodi e Walter Veltroni inventarono l«Ulivo mondiale» da Jospin a Clinton (in spiacevole concomitanza con il pensionamento dei due, e la morte del primo Ulivo). Nacque il Centrosinistra (con annesso appassionante dibattito sul trattino). E poi i Democratici. Poi risorse lUlivo. E poi qualcuno pensò di creare un «Ulivetto» (senza Rifondazione) mentre Rifondazione minacciava una «Cosa arcobaleno» (con i pacifisti). Alle politiche cerano due Ulivi (quello prodiano, e uno «tarocco», di verdi e Pdci al Senato).
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