Da una parte «ipotesi realistiche di 3/4 settimane». Dall'altra «ipotesi ottimistiche di pochi giorni». Tra le due previsioni sul conflitto in Libia - snocciolate ieri a Palermo dal ministro degli esteri Franco Frattini - naviga il cadavere politico del Colonnello Muhammar Gheddafi. Un cadavere sempre più ingombrante. Un cadavere di cui tutti, e non solo Washington e Parigi, vogliono sbarazzarsi. Le previsioni pronunciate da Frattini all'indomani del «gruppo di contatto» di Roma confermano l'imminenza delle scelte finali. Il referto da malattia terminale esibito da Frattini risponde certamente a esigenze di politica interna dettate dalla Lega, ma le scadenze temporali a cui fa riferimento derivano da certezze assai più solide. Certezze in parte discusse, in parte implicitamente metabolizzate, durante gli incontri con Hillary Clinton e con gli altri «chirurghi» del «simposio» libico svoltosi giovedì alla Farnesina.
Dietro alle «pressioni negoziali» e la «prossima iniziativa politica» si nascondono tre scenari che non promettono nulla di buono per il rais. Il primo punta molto drasticamente alla sua eliminazione. Gli altri due scommettono sulla sua rimozione per mano di un Bruto o di un Badoglio già allineati ai voleri della Nato. Il terzo su un esilio accettato obtorto collo da un rais con le spalle al muro.
Il primo funesto epilogo è già stato prefigurato in almeno due occasioni. La prima il 24 aprile scorso quando una salva di missili centra gli uffici del colonnello all'interno del bunker di Bab al-Azizya. La seconda domenica primo maggio quando altre bombe colpiscono il palazzo in cui si trova il Colonnello, uccidendo suo figlio Saif Al Arab e due nipotini. Ovviamente due raid così vicini non sono casuali, né nello svolgimento, né nella crescente, sanguinosa aggressività. Servono a far capire ad un Colonnello spregiudicato, ma sempre attento alla pelle, che il tempo a sua disposizione è irrimediabilmente scaduto, che la sua sopravvivenza non dipende più dalle sue doti di fuggitivo, ma semplicemente dalla volontà dei cacciatori di affinare il tiro. E la triste fine di Saif Al Arab suona come un monito per tutto il resto dei figli poco decisi a seguirlo sulla strada del cimitero o del giudizio per crimini contro l'umanità davanti alla Corte internazionale dell'Onu. Queste diverse propensioni di fronte ai grigi futuri di famiglia schiudono le porte del secondo scenario.
Uno scenario innescato da un figlio con la maschera del Bruto di turno pronto a metter da parte il padre. Magari d'intesa con un gruppo di «badogliani» pronti a usare quel che resta dell'esercito per mettere a tacere la resistenza degli ultimi fedelissimi e garantire la sopravvivenza del figlioccio infedele.
Il terzo scenario, più morbido ed indolore, è anche quello dalle scadenze più rapide. Potrebbe scattare già nei prossimi giorni se il rais fatti i conti e le valige si deciderà ad accettare la prospettiva dell'esilio. La riunione del Gruppo di contatto, preceduta dall'addio degli amici più fidati, ha sancito, del resto, il definitivo trapasso politico di Gheddafi. La più devastante fra le tante defezioni è quella della Turchia . Alla vigilia dell'appuntamento romano l'amico e alleato Tayyp Erdogan ha chiesto ufficialmente al Colonnello di «dimettersi e lasciare il potere al popolo libico». Un «dietrofont» radicale rispetto alla politica di collaborazione di Ankara e alla decisione di tener aperta l'ambasciata di Tripoli per garantire alla Libia un ultimo canale di trattativa con la Nato.
L'addio turco ridimensiona anche le certezze di un'Unione Africana dimostratasi, a Roma, assai più tiepida nel difendere il rais. Così mentre alleati ed ex-amici lanciano il conto alla rovescia Gheddafi deve decidere come e quando andarsene.
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