Un concerto di Alexander Lonquich non è una novità e neanche una rarità per il pubblico romano che ha la fortuna di ascoltarlo regolarmente ogni anno, talvolta in più occasioni e in diversa formazione. Nella stagione in corso, ha eseguito tutti i Concerti per pianoforte di Beethoven, nella doppia veste di pianista e direttore con lOrchestre des Champs Elysées, per la Iuc; e, non è moltissimo, la Filarmonica ha ospitato un suo recital in coppia con Cristina Barbuti, sua compagna anche nella vita. Lonquich, come sappiamo, pratica da sempre anche la musica da camera, accompagna liederisti e, più recentemente, dirige anche. Incarna, insomma, una figura «completa» di musicista, nella quale vorremmo più spesso imbatterci. Italiano dadozione - fu lanciato nel concertismo, ancor giovane, dalla vittoria al Concorso Casagrande di Terni ed anche perché ha deciso di stabilirsi da noi - è «europeo» per formazione, per ampiezza di repertorio, solida cultura e vastità di interessi.
Quando fu lora di spiccare il volo, egli, ancora troppo giovane per affrontare linsidioso mare della carriera internazionale, ebbe la fortuna di esser guidato da espertissimi e nobilissimi musicisti (Nikita Magaloff, Paul Badura-Skoda, Joerg Demus), che lo introdussero nei misteriosi segreti della musica e lo accompagnarono nei primi passi, intrecciando spesso le loro mani «sicure» a quelle ancora «tremanti» del giovane riccioluto musicista; come fa continuamente anche Claudio Abbado con i giovani direttori che via via scopre, alleva e poi lancia (Daniel Harding, Gustavo Dudamel e Diego Matheuz, ventiquattrenne, ultima scoperta venezuelana, in ordine di tempo).
Lonquich ha fatto tesoro di tutto e oggi è fra i pianisti più apprezzati e stimati.
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