Sulle colline di Cogoleto c’era l’ospedale-villaggio

Cento ettari dove negli anni Venti vivevano centinaia di persone, tra cui molti bambini destinati a trascorrere tutta la vita rinchiusi

«Lo sa che Cogoleto fu regalato a Genova a patto che aprisse qui un ospedale psichiatrico che servisse anche Savona?». Ferrannini ti dà la dimensione del problema di allora con un inciso di colore che si carica di tutto. Del ghetto, del rifiuto, dell' esorcizzazione. Non c'è confine che tenga, c'è un lavoro da fare per chiuderci dentro il diverso, la paura, il discriminante. Un altopiano a mezza collina, a Pratozanino. Case lungo la strada che per un chilometro e mezzo sale da Cogoleto. Cento ettari che tra il 1920-'22 e il '27-'28 si popolano di 26 padiglioni. C'era anche il reparto bambini, abbandonati lì, cresciuti dentro, morti dentro, nel disturbo psichiatrico che diventa la consuetudine. «Era il modello dell'ospedale-villaggio - ti spiega il dottore - Oggi abbiamo qui una struttura residenziale nostra che ospita 30 persone. I restanti 25 padiglioni sono vuoti». Allunghi fin su. Mica per vedere cosa. Un paio di curve, il sole negli occhi, e una signora che aspetta sul ciglio. Un po' infagottata, un po' assente. Altre due curve e operai al lavoro nella ristrutturazione d'una casa. Ecco l'ingresso dell'ex ospedale psichiatrico, un viale lunghissimo tagliato dall'orizzonte. Entri solo con autorizzazione via fax, per telefono non si fidano. Nella portineria aperta c'è la mappa dei padiglioni, numeri e nomi. L'addetto ti indica l'unico edificio abitato, il resto è deserto dei tartari «purtroppo». L'avverbio suona strano, «nel senso che è un peccato, 100 ettari mollati così». Ti dice che i pazienti che sono in grado, escono e scendono in paese. Altri vengono accompagnati dagli operatori, «li portano anche in gita».
Le foto dei padiglioni le hai già viste in mostra. Il vuoto-proiezione. Fuori le case a ridosso e una targa in evidenza: «Comunità alloggio di utenza psichiatrica, Casa-famiglia Ospitalità». Qui ci stanno gli altri, tre-quattro per appartamento. «Chiuso l'ospedale - aveva aggiunto Ferrannini - molti hanno avuto diritto alla casa popolare. Risiedevano a Cogoleto da anni e in qualche modo gli spettava. Comunque sono assistiti dalla nostra equipe territoriale». Stanno appoggiati sul muretto della strada in ordine sparso. La signora di prima scende da un'auto ed entra nel portoncino che sembra un quadro di Vermeer. Nel mezzo non ci sta nessuno, c'è sempre quella sensazione del dentro-fuori, della linea di confine che manda a farsi benedire la normalità e rende bene il nonsense. Un tempo fermato, a gravitazione lunare. Il guardiano sulla porta e un mondo dentro stoppato al di là del cancello. Mangi un panino al bancone di un bar più sotto. Bartolomeo ti dice che gli ospiti della casa famiglia passano anche da lui, mezza parola, una pacca sulla spalla. Soli.
E qualcuno accompagnato. Si rivolge al fratello, «lo sai che un'auto l'altra sera ha investito M. lì davanti all'ospedale? Un uomo mite. Mai una parola sopra le righe. Gli piaceva camminare al buio su queste strade di campagna». Scopri che il papà di Bartolomeo era responsabile dell'azienda agricola dentro il manicomio: «mi diceva che fino agli anni '70 andava tutto bene, avevano 300 maiali e producevano per loro e per i degenti di Quarto». La quotidianità con la realtà di Pratozanino, decodificata da chi lavorava dentro e si relazionava fuori.

Dall' 1 luglio 1998 il manicomio di Cogoleto non esiste più. La percezione di una linea che oggi smette d'essere tesa. Paure? Ansie? Solo la normalità, nelle pieghe e nelle storie che si intrecciano, nelle barriere che resistono, perché gli anni non hanno lavorato a vuoto.

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