«Sulle Popolari le mani forti di banche e investitori esteri»

Banche Popolari nel mirino. È il tema ricorrente, in Borsa, da qualche mese. Nelle banche cooperative si trovano le peggiori performance del settore creditizio. Anche meno 30-40% negli ultimi 60-90 giorni. Come se il modello Popolare, con la sua dote di voto capitario e limite al possesso azionario, fosse allo stremo. Inadatto a un mondo dove gli spread ormai ridotti all’osso fanno emergere le inefficenze, e con una governance incapace di correggere gli errori dei manager. È arrivato il momento di ripensare le Popolari? Per Giovanni De Censi, storico presidente del Credito Valtellinese e dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari, non se ne parla neanche. «C’è in giro troppa gente che parla delle Popolari senza conoscerle. E c’è una tendenza a guardare il tema da un’angolazione esclusivamente finanziaria: è sbagliato».
Quindi come va valutata una Popolare?
«Sulla base del suo fine statutario che è quello di fare credito per sostenere il territorio e sviluppare le parti più deboli della società. Ed è da qui che discendono il voto capitario e il limite al possesso azionario».
Ma come la mettiamo quando una Popolare va in Borsa, al fianco delle banche spa?
«Guardi, nel 1981 Guido Rossi, allora presidente Consob, mi chiese se non mi sembrava più corretto che i 10mila azionisti del Creval potessero scambiare i loro titoli in Borsa, facilitando gli scambi. Ed è così che è nata la quotazione. Poi tutto può essere quotato in Borsa, anche le noccioline come succede a Chicago. L’importante è sapere cosa si compra: un investitore che si prende i titoli delle Popolari, sa del voto capitario: se non gli piace, compri qualcos’altro».
In Borsa ci sono Popolari che non sembrano così fedeli al fine statutario. Basti ricordare le operazione spericolate della Lodi, gli investimenti nell’immobiliare o i recenti rilievi di Bankitalia alla Milano. Non c’è il rischio che dietro alla governance cooperativa si nascondano secondi fini?
«Questo succede quando i manager si dimenticano dei valori che sono stati chiamati a difendere. Ma la Lodi rimane un caso isolato. Per quanto riguarda l’immobiliare, dico che ci hanno investito un po’ tutti; e sulla Milano chiedo quale banca non abbia ricevuto osservazioni da Bankitalia. In fondo si tratta di consulenze gratuite. Detto questo, è vero che alcune superpopolari sono nate per aggregazioni un po’ “spintanee”, per necessità sistemiche, come la Lombarda in Ubi e la Lodi nel Banco Popolare. E questo ha un po’ sfilacciato il rapporto tra socio e cliente, che è il fulcro del modello».
Quindi tutto bene così com’è? Cosa ne pensa delle indicazioni di Bankitalia o delle proposte di Carlo Fratta Pasini di alzare il tetto al possesso azionario dallo 0,5 al 2-3% e di aumentare le deleghe?
«Sono favorevole, ma solo con il recepimento dello statuto e non per imposizione di legge. Quest’ultima deve solo rendere possibile le modifiche».
Non esiste alcun caso Bpm?
«Il problema c’è, ma sono i sindacati: io dico che i dipendenti devono poter essere soci, ma i sindacati no. Quando avviene, è l’equivalente di un patto di sindacato occulto».
Sospetta qualche trama dietro al crollo dei prezzi dei titoli di questi giorni?
«Io so che i soci non sono venditori perché sanno che le quotazioni si riprenderanno. Poi di sicuro ci sono molti interessi di investitori stranieri per mettere le mani su queste banche. Pensi che in media il settore delle Popolari quota meno del 50% del valore degli asset tangibili: ovvio che a qualcuno interessino.

Pensi che per il Creval mi è stata presentato da poco l’interessamento da parte di banche asiatiche. Naturalmente irricevibile».
Finirà così, con le Popolari ai cinesi?
«No perché Bankitalia riconosce il valore del modello cooperativo. Che vale il 25% del mercato bancario italiano».

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