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Sulle tracce degli hippy: l'Iran che non ti aspetti

L'Iran che non ti aspetti con il clima che non ti aspetti è in cima a una lunga strada che da Rasht, città anonima a due passi dal mar Caspio, corre verso le montagne, snodandosi tra piantagioni di Cay e risaie

Sulle tracce degli hippy: l'Iran che non ti aspetti

Nostro inviato a Masuleh (Iran)

L'Iran che non ti aspetti con il clima che non ti aspetti è in cima a una lunga strada che da Rasht, città anonima a due passi dal mar Caspio, corre verso le montagne, snodandosi tra piantagioni di Cay e risaie. Qui c'è Masuleh, mille anni di storia e millecinquecento abitanti, che vivono in queste casette arrampicate alla montagna, costruite una sull'altra, un presepe a terrazze dove il tetto di una casa è il pavimento di quella sovrastante. E Masuleh la mattina di Pasqua si sveglia pigramente sotto una nevicata. Contadini in pantofole nonostante il freddo risalgono le strette vie del villaggio, mentre la neve imbianca i tetti. Scenario inconsueto per l'immaginario collettivo che l'Iran lo immagina desertico, fatta eccezione per gli impianti sciistici dei monti Albortz, a Nord di Teheran. Ma Masuleh è famosa, soprattutto qui in Persia, dove è una delle mete più amate dai locali. Oggi ce ne sono pochi: solo un torpedone arriva sbuffando nel piazzale all'inizio del paese quando la neve sembra aver concesso una pausa. Ci sono tre alberghi, ma per entrare più a fondo in questo Iran inconsueto si può anche affitare una stanza nelle case dei residenti. Il problema è capirsi. Ma anche se l'incomunicabilità - se non si parla farsi - è sempre dietro l'angolo, alla fine ci si intende. E bastano 15 euro per una grande stanza panoramica col pavimento nascosto da decine di tappeti, coperte e cuscini per dormire per terra. La padrona di casa sembra uscita da un museo etnografico, ha i capelli grigi e ricci praticamente scoperti, appena nascosti da un fazzoletto nero ricamato, porta uno scialle colorato e pantaloni larghissimi. Ceduta la grande stanza al primo piano, per la famiglia resta solo una stanza. Eppure sembra la borsa di Mary Poppins: nel giro di 24 ore da quella porta escono la padrona di casa, il marito, un figlio grande, un ragazzino e due ragazze sui 20 anni. C'è una stufa a nafta per ogni piano. Quella “di casa”, all'ingresso, ha sempre il bricco dell'acqua appoggiato su, perché ogni momento è un buon momento per una pausa cay. Il paese alle due del pomeriggio è in piena siesta. Restano aperti solo i venditori di souvenir e le bancarelle che vendono l'halva, un dolce al sesamo che quasi vale il viaggio, e il “kaka”, una specie di panzerotto fritto alla cannella che il viaggio lo vale eccome. Si può camminare nel piccolo bazaar immersi nella nebbia dimenticandosi di essere nel paese degli Ayatollah, tanto che tocca ritrovarsi improvvisamente nella piazza della piccolissima moschea per accorgersi di non essere in Alto Adige. Di fronte al tempio c'è il cimitero. Anzi, la piazza è il cimitero. La gente cammina sulle lapidi, perché in un villaggio rubato metro a metro alla montagna non c'era spazio da sprecare, e così sia. Ricomincia a nevicare, e stavolta si fa sul serio. E in questo scenario natalizio salta fuori Sharam, 18 anni, che ha voglia di chiacchierare e così scatta immediato l'immancabile invito a bere un cay e a fumare il narghilé. Studia ingegneria elettronica a Rasht, Sharam, e non sa cosa farà da grande. Ma lui che non è un turista ricorda bene che questo paradiso di montagna è sotto un regime. “L'Iran non è bello, perché non può esistere un bel Paese senza la libertà, e in questo Paese non c'è libertà”, dice in un inglese perfetto. Racconta di tifare Arsenal, di adorare gli spagnoli e di detestare gli olandesi, e dice che dopo la laurea vorrebbe restare a Masuleh. “Non c'è lavoro, non ci sono prospettive in Persia. Dovrò andare all'estero, probabilmente. Oppure restare qui, dove almeno ci conosciamo tutti e sappiamo di poterci fidare”. Altrimenti, spiega, in Iran finisci denunciato da spie e delatori appena fai qualcosa “che non piace al regime”. Ci racconta di sue amiche a Rasht che sono state denunciate per aver portato i capelli troppo scoperti, e ci dice che non sopporta questa teocrazia che sta uccidendo il vero sentimento religioso. “Un tempo ti coprivi i capelli e andavi in moschea perché ci credevi, ora ti uniformi solo per paura, per evitare rogne”. Intanto è sceso il buio, e non smette di nevicare. Sharam prima di dileguarsi raccomanda di provare una specialità locale, il Mirza Ghasemi: melanzane, zucca, pomodoro, aglio e uova pestate insieme e servite con riso. Almeno non è il solito kebab. E Masuleh non è il solito posto: il mattino dopo, 13 aprile, c'è mezzo metro di neve che copre ogni cosa del villaggio. Taxi e minibus non possono nemmeno avvicinarsi. Ma in questo Masuleh è come il resto dell'Iran: non ci si sente mai soli. Un contadino, non giovanissimo, sta per scendere a valle in automobile, e un tipo che parla inglese si offre di fare da interprete per spiegare che c'è qualcuno a cui serve un passaggio. E l'arrivo in pianura sulla traballante Paykan è di per sé un'esperienza indimenticabile.

Il viaggio continua.

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