MilanoFigurarsi se un re delle evasioni come Vallanzasca non sarebbe riuscito a dribblare i fotografi e cameramen appostati per immortalare il suo primo giorno di lavoro. Massimo DAngelo, il responsabile della cooperativa, li fa entrare tutti poi «uno, due e tre» e Renato sgattaiola via da un ingresso secondario. Con unagilità impensabile per letà, 60 anni a maggio, e le condizioni di salute, si infila dentro una Panda rossa e via verso il carcere di Bollate.
A oltre 30 anni dalle sue gesta cruente, il re della Comasina riesce ancora mettere in fibrillazione Milano. Anche senza assalti in banca, sparatorie con la polizia o con bande rivali, che avevano trasformato la città in una sorta di Chicago anni Venti. Il tutto in meno di sette mesi, dallevasione del luglio 76 alla cattura nel febbraio 77, sufficienti tuttavia per cucirsi addosso la fama del bandito audace e feroce. Alla fine gli addebitano sette omicidi e quattro sequestri di persona, tradotti in 4 ergastoli e 260 anni di galera. Da allora, a parte unaltra evasione durata un mesetto, dovrà aspettare il 2009 per rimettere il naso fuori: grazie a un permesso per motivi di salute della madre novantenne e suoi, unoperazione allanca. Ora il nuovo provvedimento per lavorare allesterno.
«Ci ha contattato il carcere chiedendoci se eravamo disponibili ad accoglierlo e abbiamo subito detto di sì» spiega DAngelo, responsabile della cooperativa che ha assunto Vallanzasca. Qui, in un laboratorio dalle parti di via Cenisio, semiperiferia, tendoni e striscioni pubblicitari vengono trasformati in borse e borsette di vario tipo, contenitori per pc, cellulari, chiavi e monete.
Il suo primo «giorno di scuola» inizia poco dopo le 8 quando la moglie Antonella lo accompagna fino alla porta del laboratorio. I due camminano per pochi metri a braccetto, testa bassa, bersagliati dai fotografi già in agguato. Capelli biondi, sciarpone, occhialoni da sole, giacca, pantaloni e scarpe scuri lei; giaccone, il cappuccio tirato su, un paio di pantalonacci blu lui. Un rapido saluto davanti lingresso.
Vallanzasca dentro sfila il giaccone, mostrando un volto in cui, nonostante i baffi, è difficile riconoscere il «bel René» che fu. Capelli bianchi e radi, volto pesantemente segnato, occhiali dalle lenti spesse che non riescono tuttavia a rimediare ai suoi gravi problemi alla vista. Indossa un maglione blu, con sotto una camicia di flanella scura.
Saluta, leggermente imbarazzato. Cerca di essere gentile e disponibile con tutti tirando le labbra in quel che dovrebbe essere un sorriso e invece appare più una smorfia. Si siede vicino a una coppia di esperte lavoranti che gli danno le prime indicazioni sul taglio del materiale. «Mi è sembrato molto sveglio, attento, curioso, pieno di voglia di imparare» racconta poi una delle due. Da quello si passa poi a disegnare la sagoma su cui appiccicare il logo della cooperativa. Il tempo trascorre in fretta. Fuori però si fa ressa degli operatori, dentro serpeggia in nervosismo.
«Tutti i detenuti in permesso sono ansiosi, è una costante, e lui non ha fatto eccezione, anche per il presidio fuori dal laboratorio» precisa ancora DAngelo. «Renato infatti era molto preoccupato per limmagine che di lui sarebbe uscita allesterno, per limpatto che avrebbe avuto sullopinione pubblica saperlo fuori dal carcere».
Intanto si fa ora di pranzo. Lui però non può uscire, sarebbe evasione. Quindi uno per tutti va a fare la spesa, per Vallanzasca un panino al vicino Kebab e una birra. Poi ricomincia lapprendistato. Verso le 14.30 il caffè, lo mettono su a turno, questa volta tocca lui che non si fa pregare. «Davvero ci siamo trovati bene con lui - raccontano ancora le colleghe -. Siamo una decina di lavoranti, tutti con qualche problema, di carcere, disagio sociale o disabilità, quindi ci sentiamo una sorta di grande famiglia, in cui lui ha subito dimostrato di voler entrare con entusiasmo».
Alle 17 finisce il suo orario, e si prepara a tornare a Bollate. Dora in poi sarà una costante: uscita alle 7.
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