Ci sono giorni in cui uno è autorizzato a pensar male. Obbligato a fare due più due e a riflettere su certe inchieste e sugli effetti che producono sulla vita politica. Ieri è stato uno di quei giorni. Quando il superesperto informatico Gioacchino Genchi, consulente dell’ex pm catanzarese Luigi De Magistris in Why Not, s’è presentato al cospetto congressuale dell’unico personaggio (Antonio Di Pietro) che non ha subito danni politici o di immagine dall’aver intrattenuto rapporti con Antonio «Tonino» Saladino – considerato proprio da De Magistris il deus ex machina del comitato d’affari di Why Not - più di una persona ha sudato freddo. Perché agli occhi dei tanti che hanno incrociato Saladino e da innocenti hanno avuto comunque la carriera e la vita rovinata, è stato un cazzotto allo stomaco vedere a congresso i protagonisti della discussa inchiesta catanzarese incentrata proprio su Saladino. Ecco perché, in tanti, hanno chiamato in redazione chiedendo di approfondire quel (poco) che era venuto alla luce sui rapporti fra il Tonino molisano e quello lametino.
Posto che non è mai stato trovato un riscontro alle indiscrezioni sull’esistenza di un’intercettazione esplosiva fatta dai carabinieri di Lamezia Terme; assodato che nonostante le voci sulla presenza del nome di Tonino Di Pietro nelle agende sequestrate a Tonino Saladino, quel riferimento non c’è fra le carte depositate; accertato che Di Pietro incontrò in diverse occasioni Saladino proprio mentre quest’ultimo era sotto indagine, intercettato e pedinato. Alcune cose poco chiare necessitano di spiegazioni, almeno secondo i tanti detrattori di Genchi, De Magistris e Di Pietro. Primo: perché, come nel caso Contrada, Di Pietro ha inizialmente negato di ricordare chi fosse Antonio Saladino? Secondo: perché Di Pietro non è stato interrogato per chiarire i suoi rapporti con Saladino, al pari dei tanti (vedi Mastella) che con Saladino ebbero rapporti, vennero indagati, salvo essere infine scagionati da giudici terzi che ritennero legittimi quei rapporti? Terzo: se Saladino era pedinato e intercettato nel periodo in cui incontrò Di Pietro, come mai non risulta un atto, un brogliaccio, un’intercettazione, un’informativa, in cui si fa riferimento, diretto o indiretto, all’ex pm di Mani pulite?
Il povero Saladino, il 5 dicembre 2008, riferì d’aver avuto più rapporti con Antonio Di Pietro «fino a quando, nel febbraio del 2006, mi è stato notificato il primo avviso di garanzia». Dopodiché Saladino preferì non incontrare più Di Pietro per evitargli problemi: «Confidai a un soggetto vicino a Di Pietro come fosse inopportuno l’incontro precedentemente fissato proprio per non creare imbarazzo all’onorevole. Di tutto ciò vi è ovviamente ampio riscontro nelle conversazioni intercettate». Non è così. Fra le migliaia di telefonate depositate alle parti, quella in cui si parla di Di Pietro e di appuntamenti con il leader dell’Idv, come detto, non è depositata. E come nel caso delle foto con Contrada, Di Pietro non solo ha evitato di dire subito che conosceva e aveva incontrato per ben due volte Saladino (la prima in un viaggio in auto dall’aeroporto di Lamezia Terme a Catanzaro, la seconda a Roma) ma come se nulla fosse ha continuato ad attaccare tutti coloro (vedi sempre Mastella) che erano finiti sotto inchiesta per i contatti con Saladino. E ancora. Quando venne fuori questa storia dei due Tonino, dapprima il padre-padrone dell’Idv non ricordava «né il nome, né il volto, né chi sia questo Saladino». A meno che, metteva però le mani avanti, «non sia una di quelle migliaia di persone che mi si avvicinano in occasione delle campagne elettorali». Guardacaso ci azzeccò. Era proprio uno a cui Di Pietro si rivolse sotto elezioni: si parlò di una candidatura di Saladino per l’Idv. Messo alle strette, Di Pietro ammise gli incontri con slancio ipergarantista: «Non so se questo Saladino abbia commesso qualcosa di penalmente rilevante e mi auguro che non sia così, i miei rapporti con lui non sono stati né opachi né illeciti. Solo incontri elettorali, senza alcun altro fine». E per dimostrare che non aveva niente da temere, Di Pietro auspicò «una ricostruzione profonda dei fatti contestati e dei rapporti fra le persone citate nelle inchiesta». Il consiglio ovviamente riguardava altri, visto che a lui nessuno ha mai chiesto niente. Se la miglior difesa è l’attacco, in quell’occasione Di Pietro fu un centravanti di sfondamento eccezionale: «Non posso che augurarmi che Why Not vada avanti e buon senso vorrebbe che a proseguire le indagini fosse proprio De Magistris, il magistrato che, avendo iniziato l’indagine, conosce a menadito tutte le carte». Era talmente convinto che il pm di Why Not dovesse portare a termine l’inchiesta, che di lì a poco, proprio quando i giornali parleranno delle sue frequentazioni con Saladino, gli offrirà una poltrona in Parlamento. Lo confesserà lo stesso De Magistris: «Di Pietro mi ha chiesto se volessi candidarmi, gli ho detto di no perché voglio continuare a fare il magistrato». Per la cronaca, un anno dopo cambierà idea. Di più: a sollevare dubbi sulle modalità d’indagine, il 19 marzo 2009, non fu «il solito Giornale», bensì La Stampa: «I detrattori di De Magistris, poi, scommettono che l’agenda di Saladino non sia stata sfruttata del tutto dal consulente Genchi. L’imprenditore della Compagnia delle Opere aveva rapporti con il presidente della commissione giustizia della Camera, Pino Pisicchio, dell’Idv. E con Aurelio Misiti, ex assessore regionale calabrese della giunta Chiaravalloti transitato nell’Idv». Dall’agenda non uscì fuori Pisicchio, non uscì Misiti e nemmeno uno degli incontri con Di Pietro appuntati. Il consulente Gioacchino Genchi si è sempre difeso sostenendo d’aver svolto correttamente il compito affidatogli dal pm Luigi De Magistris.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.