Il tè contro il caffè, la politica in America ora si fa a colazione

Il movimento popolare dell’anno? I Tea Party. Odiano Obama e Stato Adesso tocca ai Coffee Party: i fan buonisti di presidente e Congresso

I l futuro prossimo è un tè o un caffè. Dipende da che parte stai: l’America divisa su tutto adesso stabilisce a colazione che cosa vuol essere. Cattiva o buonista, arrabbiata o accomodante, individualista o statalista. Scegli una bevanda per sapere che ci sono due gruppi politici che agitano la vita e le giornate degli Stati Uniti e sono lì, nel pensile della coscienza collettiva. C’è il partito del tè e c’è il partito del caffè: tutti e due fuori dalla politica vera e opposti, alternativi, inconciliabili. Perché il Coffee Party è nato per quello: per contrastare gli altri. Ieri c’erano 46 appuntamenti in giro per gli Stati Uniti: 46 riunioni di «americani attivi per la democrazia», come si definiscono con una punta di superiorità. Perché loro, dicono, sono le persone responsabili: sono i fan della partecipazione della gente alla politica.
Lo slogan che portano sulle magliette, sui manifesti, sui cappellini è questo: «Wake up, America». Svegliati. Accanto c’è l’immagine di una tazza di caffè fumante. Dice più della scritta, dice più del resto, dice che questo gruppo s’è messo in testa di far capire al Paese che gli altri, quelli del Tea Party, sono sbagliati. Loro no. Loro hanno un programma da famiglia felice del Mulino Bianco: «Riunificare il Paese su alcuni obiettivi comuni, non allargare il divario dello scontro politico che sta dilaniando gli Stati Uniti. Contro l’odio e il furore ideologico, proponiamo il dialogo costruttivo, dentro e fuori il Palazzo». Loro non demonizzano i politicanti di Washington, dall’inquilino della Casa Bianca ai parlamentari del Congresso: ritengono che il governo non sia il loro nemico, «ma l’espressione della volontà collettiva». La loro missione è quella di «partecipare democraticamente e aiutare chi lavora duro nel cercare accordi per fare le riforme necessarie alla soluzione dei problemi del Paese». La grande stampa li fiancheggia, perché sono il politicamente corretto che bilancia la rabbia dei loro avversari dei Tea Party. Così il New York Times ne parla sempre con affetto: «Con il partito del caffè, nel menù della politica americana si aggiunge un sapore di partecipazione civica». Ufficialmente i Coffee Party si proclamano bipartisan, in realtà sono fan di Obama che vorrebbero spostare più a sinistra il programma del presidente facendo finta di volere la pace politico-sociale. Perché i liberal tradizionali si irritano di fronte alle mediazioni del presidente, mentre loro no: vorrebbero premiare quei parlamentari che più di tutti si sporcano le mani nel trovare un’intesa. Erano i più accesi sostenitori della riforma sanitaria: il 62 per cento dei 60mila iscritti al sito internet ufficiale del movimento sosteneva che non ci fosse cosa più importante al mondo che quella legge. Cioè esattamente l’opposto dei Tea Party che fino all’ultimo secondo sono rimasti a protestare contro l’Obamacare all’esterno di Capitol Hill. Perché per il partito del Tè, questa è la fine dell’America. L’hanno detto anche sabato in Nevada, a Searchlight, dove si sono incontrati per l’ennesimo raduno del movimento. Una scelta precisa: sono andati a riunirsi nella città del senatore Harry Reid, il capo della maggioranza democratica nella Camera alta del Congresso e uomo chiave di quella riforma che per loro è un pozzo senza fondo che risucchierà i loro soldi.
Erano arrabbiati, i Tea Party. Lo sono di più ora che la nuova sanità obamiana è passata. Questo movimento era un folcloristico gruppetto di manifestanti e adesso è qualcosa di più: una costola politica che non trova rappresentanza e che si vuol prendere il suo spazio. Sono mesi che sono lì: sui giornali, sulle tv, sul web: visti con un disprezzo enorme dalla stampa liberal e con molta simpatia dalla radio conservatrice. Sono così: non sopportano «Washington ladrona», detestano il palazzo, l’establishment di Capitol Hill, pieno di «parassiti» di destra e di sinistra, venduti alle lobby, alla Borsa e alle multinazionali, che vivono alle spalle dei contribuenti pensando solo a farsi rieleggere. Ma il loro bersaglio principale, il motivo per cui sono nati, è Barack Obama, lo statalista, «l’ideologo socialista», il simbolo di quell’America multiculturale che loro vedono come una deviazione perversa del sogno americano.
Sono apparsi qualche mese fa, gli uomini e le donne del Tea patriot party: era l’estate scorsa e l’esordio fu attorno al Campidoglio di Washington. Protestavano, come ora. Solo che adesso non ricordano neanche il perché. Nei mesi sono cresciuti fino ad arrivare alla prima convention di Nashville, in Tennessee. Lì c’erano per capire che cosa vogliono essere. Non l’hanno ancora stabilito, ma hanno messo le basi per capire tra qualche mese dove potranno andare: nelle elezioni di metà mandato potrebbero avere il loro primo vero appuntamento politico con candidati al Congresso che si identificano nei loro valori. Per ora li lega la protesta, estremista e intransigente, amplificata dalle stelle della Fox. Per capire i loro toni basta leggere uno dei seminari in programma in quei giorni a Nashville, dedicato alle «connessioni tra l’amministrazione Obama e le dittature marxiste dell’America latina degli anni ’70», come dire Barack e Pinochet, due statisti a confronto. Aperto dibattito. Antistatalisti convinti, fortemente federalisti, antigay e anti immigrati. Raccolgono le paure di un ceto medio composto di «small business», il nostro popolo delle partite Iva, terrorizzato dalle politiche sociali della nuova amministrazione, che teme come il demonio la globalizzazione.
Nel contestare apertamente il fisco federale, si rifanno ai primi americani che nel 1773 scatenarono la rivolta contro l’oppressore inglese gettando casse di tè nel porto di Boston. La loro scelta di vestirsi come i soldati della prima unione delle colonie americane, ricorda un po’ quel folclore di chi a Pontida si veste da Alberto da Giussano. La loro terra promessa è un’America chiusa, bianca, autoreferenziale e felice di esserlo. Un po’ quella del Midwest, fortemente bigotta e puritana, lontana dall’elegante e sofisticata east coast.

Nessuno di loro ha frequentato le migliori università dell’Ivy league eppure in Massachusetts qualche settimana fa sono riusciti a sfondare all’interno dell’elettorato democratico provocando un terremoto politico. Li hanno dati per spacciati: «Finiranno presto», scrive il New York Times. Forse. O forse no.

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