Herat (Afghanistan) - Le bandiere della Nato sono anche oggi a mezz’asta. Capita senza interruzione da più di venti giorni. Ma oggi sono scivolate ancor più in basso. Quei dieci soldati francesi crivellati di colpi 60 chilometri a est di Kabul, le raffiche di attacchi suicidi a Camp Salerno, la base di Khost nodo nevralgico per tutti gli spostamenti americani nel sud est del Paese, l’attacco costato la vita, ieri mattina, a un militare americano e a uno afghano nell’estremo nord del settore occidentale controllato dalle truppe italiane moltiplicano la sensazione di precarietà e insicurezza, i tre polacchi straziati dallo scoppio di una mina a Ghazni, nell’Est del Paese.
Nonostante i sintomi sempre più dolorosi i malanni restano comunque gli stessi. L’ecatombe di Surubi raccontata dai 21 feriti francesi sembra la cartina di tornasole dei problemi dell’Alleanza Atlantica. La prima avanguardia mandata avanti a piedi in un territorio sconosciuto si ritrova circondata e tagliata fuori. I cacciabombardieri della Nato intervenuti in soccorso invece di martellare le posizioni talebane sbagliano bersaglio e colpiscono le truppe che devono soccorrere. E per finire i rinforzi cadono in altre imboscate impiegando ore per rompere l’accerchiamento. La disfatta francese dimostra una volta di più che le truppe impiegate in Afghanistan dall’Alleanza Atlantica sono troppo poche, scarsamente coordinate e incapaci di garantire il controllo del territorio. A questo s’aggiunge l’immobilizzante distinzione tra alleati pronti a combattere e altri alleati, come ad esempio i tedeschi, assolutamente indisponibili a mettere a disposizione i propri soldati in zona d’operazioni.
Detto questo bisogna fare i conti con la sempre più devastante capacità di propagazione e infiltrazione dei talebani. La progressiva destabilizzazione del Pakistan, l’uscita di scena del dimissionario Pervez Musharraf, la sempre più scarsa capacità di controllo esercitata da Washington su Islamabad hanno restituito vigore all’azione dell’Isi, i servizi segreti pachistani, che vengono considerati i veri burattinai del movimento talebano. Caduti in disgrazia dopo l’11 settembre, i generali dell’intelligence pachistana hanno ripreso il pieno controllo del dossier afghano e alimentano con rinnovata alacrità l’infiltrazione dei guerriglieri del Mullah Omar per riconquistare il controllo strategico-economico dell’Afghanistan, rompere l’asse tra Kabul e Nuova Delhi e spiazzare il cosiddetto alleato americano. Seppur smascherati da Washington, che ha esibito le prove del loro coinvolgimento nell’attentato all’ambasciata indiana di Kabul e dimostrato l’appoggio offerto ai talebani ospitati nei santuari della zona tribale, i generali dell’Isi continuano a gestire le loro trame. Non a caso la zona in cui sono caduti i francesi è una delle roccaforti di Gulbuddin Hekmatyar, un ex leader della resistenza ai sovietici alleato dei talebani e considerato l’uomo di fiducia di Islamabad.
Ma se il Pakistan è l’origine di tutti i mali, aumentare il numero e l’efficienza delle truppe impegnate nel ginepraio afghano potrebbe non bastare. Il numero di soldati necessari a garantire il controllo di queste infinite vallate supera qualsiasi realistica possibilità di dispiegamento. Dunque, come molti stanno comprendendo a Bruxelles, bisogna ripartire dall’inizio.
Da una parte tarpare le ali alle quinte colonne pachistane, mettendo Islamabad con le spalle al muro e costringendo il suo governo a scegliere tra le trame dell’Isi e l’isolamento internazionale. Dall’altra aumentare la credibilità del dispiegamento militare, garantendo una politica di sviluppo economico e sociale capace di prosciugare il fiume in cui continua a nuotare l’insurrezione fondamentalista islamica.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.