Le tante facce dell’America: patria, nostalgia e complotti

La palma del più schierato è «The Us vs John Lennon». Il pregio è la ricchezza del materiale documentario, il difetto nel titolo persecutorio

Stenio Solinas

nostro inviato a Venezia

Sul fatto che sarà un Festival a stelle e strisce, parlano i numeri. Undici film, di cui quattro nella rassegna ufficiale. Su che tipo di America verrà fuori, i pareri divergono. C’è chi si rifà alla presenza di Oliver Stone con il suo World Trade Center per dire che sarà patriottica, chi al documentario di Spike Lee sull’uragano Katrina, When the Leeves Broke, per definirla antisistema, chi a Hollywoodland, la morte misteriosa di un divo televisivo, per chiamarla complottista, chi a Bobby, di Emilio Estevez, l’assassinio di Robert Kennedy, per derubricarla a nostalgica. Il gioco delle rappresentazioni potrebbe continuare, ma ci fermiamo qui. In fondo hanno ragione tutti, e quindi nessuno: l’industria cinematografica statunitense, fra cassetta, impegno e sperimentazione, presenta ogni anno, da anni, le tante facce di un Paese complesso in cui c'è posto per tutti, amici e nemici, detrattori e sostenitori, critici e complici. Parafrasando l’Humprey Bogart di L’ultima minaccia «è il cinema, bellezza, e non puoi farci niente».
La palma del più schierato e dichiarato fin dal titolo, spetta comunque a The US vs John Lennon, di David Leaf e John Scheinfeed, ovvero il governo degli Stati Uniti contro John Lennon, presentato ieri nella sezione Orizzonti, il racconto in pratica dello scontro fra la figura più interessante dei Beatles e l’amministrazione americana decisa a non rinnovargli il permesso di soggiorno per vie della sue idee e delle sue amicizie politiche. Il film ha un pregio e un difetto. Il primo consiste nella ricchezza del materiale documentario raccolto, pubblico e privato, dal quale emerge con sufficiente chiarezza come quello che sino alla fine degli anni Sessanta era stato il leader di una band musicale amatissima dai giovani diventi via via una sorta di guru della non violenza, un accanito difensore dei diritti civili. In un’America alle prese con il Vietnam e con la contestazione nei campus universitari, e dove il diritto di voto veniva proprio allora portato a 18 anni, questo nuovo John Lennon non poteva non suscitare preoccupazione e/o irritazione nell’establishment: l’atteggiamento spesso paranoide dei servizi di sicurezza e di alcuni settori dell’amministrazione repubblicana fecero il resto e fra spionaggio telefonico, pedinamenti, rifiuto di proroga del visto, campagne scandalistiche di stampa, quella che era una star del rock con velleità di impegno socio-politico si ritrovò trasformata in memico pubblico numero uno da un lato, martire in fieri della causa dall’altro. Il difetto è nel titolo. Al di là della formula burocratica, propria del resto delle comunicazioni ufficiali in materia, il chiaro sottinteso è quello di una persecuzione: solo che non soltanto John Lennon poté opporsi legalmente al provvedimento che, sulla base di un visto scaduto, ne chiedeva l’allontanamento volontario pena, in caso contrario, l’espulsione, ma intentò causa, la vinse, ottenne un risarcimento in denaro e, infine, la tanto contestata green card, ovvero la tessera permanente di soggiorno.
Se il Moloch americano era capace di collezionare figuracce del genere, delle due l’una: o era di cartapesta oppure, più semplicemente, in quanto tale non esisteva. Incentrato nel primo quinquennio degli anni Settanta, il film lascia in ombra i cinque successivi, ed è un peccato. Perché Lennon morì che erano appena finiti, nel 1980, ucciso sul portone di casa del Dakota Building di New York da un fan che aveva messo in pratica la lezione di Andy Warhol: «Tutti possono avere il loro quarto d’ora di celebrità». E perché in questo secondo arco di tempo l’impegnato cantore pubblico di un mondo senza guerra e tutto amore, era stato sostituito da un uomo geloso della propria privacy, del tutto estraneo a qualsiasi manifestazione pubblica, intento a registrare e a celebrare il proprio privato, la nascita del secondo figlio Sean la vita di coppia con l’artista concettuale Yoko Ono. Cronaca di un momento particolare nella storia degli Stati Uniti e non solo, The US vs John Lennon ha un coté nostalgico che i volti di tanti dei protagonisti di allora, rivisti trenta e passa anni dopo, contribuisce a rendere se non più devastante, certo più amaro. La «pantera nera» di un tempo è divenuta un professore universitario inserito nel sistema, il reduce di guerra ha trasformato la propria condizione in professione, il leader della contestazione studentesca è divenuto il capofila degli yuppies e, come il caso di Jerry Rubin, è morto facendo jogging, il salutismo ha preso il posto delle droghe e dell’eccesso. E insomma tutto è cambiato perché tutto rimanesse come prima. Sullo sfondo, struggente, rimangono le note di Imagine e ci si sorprende a chiedersi se, veramente, si potesse prendere quel testo per un manifesto.

Soprattutto, rimane il volto straordinariamente fresco, con dei rossori di timidezza, di un Lennon affabile e spiritoso, testardo e combattivo, per nulla banale e molto più interessante del ritratto fattone da detrattori e agiografi. E viene voglia di dire che, forse, davvero muore giovane chi agli Dei è caro.

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