Tanzi, solo Tanzi, unicamente Tanzi. Dopo tre mesi dalla pronuncia, arrivano le motivazioni della sentenza (leggi il documento) che il 18 dicembre scorso condannò il fondatore di Parmalat a dieci anni di carcere per le bugie raccontate ai mercati e alla Borsa nella fase finale dell'epopea del gruppo di Collecchio. E sono motivazioni che - se da un lato sferzano senza riguardo l'imputato numero Uno - confermano una diversità di analisi profonda tra la Procura di Milano e i giudici chiamati a pronunciarsi sullo scandalo più grave della storia economica repubblicana.
Della diversità di valutazioni si era già avuto un segnale esplicito al momento della lettura della sentenza: che sa da un lato raccoglieva quasi per intero le richieste della Procura a carico di Tanzi, dall'altro assolveva quasi tutti i coimputati: i membri del collegio sindacale di Parmalat, che secondo l'accusa avevano chiuso gli occhi sul disastro; e soprattutto Bank of America, la potente Bofa, che secondo i pubblici ministeri sapeva tutto di tutto, e che doveva venire condannata insieme a Tanzi a risarcire le migliaia di ingannati e di bidonati.
Ebbene, su questo punto la sentenza (che a volte riserva alla Procura espressioni inusualmente brusche) è chiara: Bank of America non aveva alcun obbligo di riferire quel che sapeva.
Si tratta, con evidenza, di un approccio assai diverso di quello della Procura sul tema del trattamento giuridico degli scandali finanziari: le tesi dei pubblici ministeri vengono liquidate come «appelli alla finanza etica», umanamente condivisibili ma privi di fondamento giuridico.
Ben più «allineato» con il pensiero dei pm il giudizio su Calisto Tanzi, il quale , il quale «ha preteso di difendersi descrivendosi quale imprenditore modello sotto il profilo gestionale, ma del tutto sprovveduto quanto agli aspetti finanziari, in relazione ai quali sarebbe stato vittima degli intenti truffaldini perseguiti da numerosi istituti di credito, italiani ed esteri».
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