Il Tar alla Lombardia: trovate la clinica per Eluana

Milano«Le affermazioni dell’Amministrazione secondo cui il servizio sanitario nazionale non sarebbe obbligato a prendere in carico un paziente che rifiuti le cure necessarie a tenerlo in vita, e il personale medico non potrebbe dare corso alla volontà di rifiutare le cure, pena la violazione dei propri obblighi di servizio, non appaiono conformi ai principi che regolano questa materia». Sette pagine di sentenza depositate ieri. Il Tar della Lombardia accoglie il ricorso di Beppino Englaro e annulla il provvedimento con cui la Regione Lombardia, il 3 settembre, aveva negato alle cliniche lombarde l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione di Eluana, la donna in stato vegetativo da ormai 17 anni. È l’ennesima vittoria giudiziaria per il padre della ragazza.
Vittoria netta, e in tre mosse. Primo, perché - sostiene il tribunale - «il diritto costituzionale di rifiutare le cure è un diritto di libertà assoluto, il cui dovere si impone nei confronti di chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura, non importa se operante all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata». Secondo, perché «il rifiuto opposto dall’Amministrazione non può giustificarsi in base a ragioni attinenti l’obiezione di coscienza. Spetta infatti alla legge disciplinare le modalità e i limiti entro cui possono assumere rilevanza i convincimenti intimi del singolo medico, ferma la necessità che la struttura ospedaliera garantisca comunque la doverosità del “satisfacere officio”». Terzo, perché la Regione «in ossequio ai principi di legalità, buon andamento, imparzialità e correttezza, dovrà indicare la struttura sanitaria dotata di requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi tali da renderla “confacente” agli interventi e alle prestazioni strumentali all’esercizio della libertà costituzionale di rifiutare le cure», così da «evitare all’ammalata (o al curatore) di indagare in prima persona quale struttura sanitaria sia meglio equipaggiata».
Così Eluana, quando sarà «ricoverata nella struttura sanitaria regionale» che sarà la stessa Regione a dover indicare, «potrà esercitare il proprio diritto assoluto a rifiutare il trattamento sanitario di idratazione e alimentazione artificiali», e «quale malata in fase terminale avrà anche il diritto a che le siano apprestate tutte le misure» che le garantiscano «un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona, durante tutto il periodo successivo alla sospensione del trattamento di sostegno vitale». E questo, insiste il Tar, «rientra a pieno titolo nelle funzioni amministrative di assistenza sanitaria». Di contro, «rifiutare il ricovero a chiunque sia affetto da patologie mediche solo per il fatto che il malato abbia preannunciato la propria intenzione di avvalersi del suo diritto all’interruzione del trattamento, significa di fatto limitare indebitamente tale diritto».
Eluana, dunque, dovrà essere «accompagnata» alla morte. Un obbligo giuridico, spiega ancora il tribunale, che «sussiste anche ove si tratti di un trattamento di sostegno vitale il cui rifiuto conduca alla morte». Circostanza, questa, che per i giudici non ha nulla a che fare con l’eutanasia. «Tale ipotesi non costituisce, secondo il nostro ordinamento, una forma di eutanasia, bensì la scelta insindacabile del malato a che la malattia segua il suo corso naturale fino all’inesorabile exitus».
Così è, ribadiscono i giudici, «almeno fino a quando la regola di diritto non sia sconfessata dal Legislatore». Ma «dall’ottobre 2007 a oggi il Parlamento non ha assunto alcuna iniziativa per sconfessare il convincimento espresso dalla Suprema corte, ma si è limitato a proporre due ricorsi per conflitto di attribuzioni contro la Cassazione e la Corte d’appello di Milano». E «inidoneo a intaccare il quadro del diritto oggettivo» è anche il «convincimento del ministro» del Welfare Maurizio Sacconi, che definì «illegale» nelle strutture pubbliche l’interruzione dell’alimentazione ai pazienti in stato vegetativo permanente.
Come sempre, Beppino Englaro misura le parole.

Il suo percorso fatto di dolore, tribunali e lotte politiche (giocate sulla sua pelle) si avvia alla conclusione. «Siamo soddisfatti - dice - questa sentenza conferma le nostre ragioni. Grazie a Dio, viviamo in uno Stato di diritto».

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