L'amore litigarello ha rischiato di giocare un brutto scherzo a Stefano Gabbana e Domenico Dolce. La storia parte un bel po’ di anni fa, e riguarda tasse, Agenzia delle entrate, un’accusa di truffa,la procura di Milano, e la spartizione dell’impero della moda. E, come tra poco vedremo, una sentenza che dà un colpo secco alla pretese dell’Agenzia delle entrate e ad un certo modo di impostare l’accusa. Ma andiamo per ordine. D&G in quindici anni si sono trasformati da sarti di gusto in businessmen a capo di una multinazionale che fattura 1,4 miliardi di euro, ha più di 130 punti vendita in giro per il mondo e 3.500 dipendenti.
Si dice che le grandi invenzioni tecnologiche americane siano nate in epici garage; in Italia imprese di pari successo e notorietà mondiale nascono invece in botteghe artigiane. Difficile pensare a notai, commercialisti e consulenti lì presenti all’atto della fondazione. Ecco perché il tesoro più prezioso della ditta era rimasto in casa. Il diritto di usare i marchi era infatti fino al 2003 legalmente detenuto in modo indiviso da Stefano e Domenico. Le loro società producevano, licenziavano, investivano: ma il petrolio restava direttamente in mano loro. Brutto affare per banche e fornitori che vedevano «l’asset più importante su cui si sviluppava l’intera attività al di fuori dell’azienda, nell’assoluta disponibilità di persone fisiche» con il rischio di vedere paralizzato il gruppo in caso di bisticcio tra i due.
Dolce e Gabbana pensano bene di risolvere la questione e una volta per tutte stabilire i pesi esatti in azienda. E lo fanno trovandoci la loro bella convenienza fiscale. Cedono infatti per 360 milioni la proprietà dei loro marchi ad una società lussemburghese, sempre da loro controllata. La ratio è banale: si sottrae alla loro personale disponibilità e umore la titolarità di D&G. La scatoletta lussemburghese «affitta» poi l’utilizzo dei marchi alle società produttive che pagano delle royalties (tassate molto favorevolmente in Lussemburgo). In più raggiungono un accordo per «spartirsi l’impero»: a Gabbana il 40 per cento del gruppo, a Dolce un altro 40 e il restante alla famiglia sempre di Dolce. La «D» in azienda diventa un po’ più maiuscola della «G». Tutto pulito, ma tutto fiscalmente molto conveniente.
Troppo secondo Guardia di finanza e Agenzia delle entrate che non solo denunciano i due, ma li accusano di truffa. La vicenda arriva per competenza al dipartimento della Procura guidato da Francesco Greco. Il pm star dei reati finanziari naturalmente imbastisce un processo ( l’accusa finisce operativamente in mano a Laura Pedio) coi fiocchi: i due stilisti ( assistiti dall’avvocato Dinoia)rischiano grosso, non solo in quattrini, ma anche in galera. Con la truffa non si scherza. Come si è letto il gup, Simone Luerti, però libera tutti, senza molte esitazioni e con una sentenza esemplare. La storia D&G dal punto di vista giudiziario ha un peso non indifferente per due motivi principali. Tutti contenuti e scritti molto chiaramente nella sentenza di assoluzione. 1. La questione è molto tecnica e riguarda il cosiddetto abuso di diritto. Per farla semplice il giudice potrebbe punire, pur in assenza di violazione di una singola norma, un comportamento volto solo a creare un’agevolazione fiscale senza alcuna ratio imprenditoriale. Roba molto scivolosa in uno Stato di diritto. Ebbene Luerti smonta pezzo per pezzo la costruzione fatta dall’accusa e considera lecito il comportamento dei due stilisti nel trovare il beneficio fiscale.
A leggere la sentenza, soprattutto su questo punto, si ha l’impressione che il giudice abbia tenuto in grande considerazione la libertà di impresa, la sua autonoma volontà di organizzarsi come meglio crede. Per una volta, una sentenza pro market. 2. Ma l’aspetto più intrigante è il passaggio che riguarda l’Agenzia delle entrate. E qui Luerti, nei modi felpati di un magistrato, va giù durissimo. A D&G il pm contesta,tra l’altro, il prezzo a cui hanno venduto i marchi ad una società da loro controllata in Lussemburgo: troppo basso. A maggior ragione, sostiene l’accusa, per il fatto che venditore e compratore erano parti correlate (banalmente erano infatti le stesse: un privato che vende ad una società che è controllata dal medesimo privato). E qui viene il bello. Il giudice nella sentenza li assolve e scrive: «Vi è un’inammissibile doppia misura che ha attraversato tutto il dibattito ».
Seguite bene: «Il prezzo di cessione fissato in regime di libertà contrattuale è sospetto, fittizio, abusivo perché i contraenti sarebbero parti correlate,mentre la stima dell’Agenzia delle entrate che è controparte direttamente interessata e costituita parte civile proprio per recuperare la tassazione sul maggiore valore esprime una certezza degna del processo penale. Non è un mododi ragionare che può essere condiviso ». Il concetto di Luerti è chiaro. Come fa il pm a fondare la sua accusa su numeri forniti dall’Agenzia delle entrate, che è legittimamente interessata a recuperare quanti più soldi possibile?L’interesse dell’Agenzia delle entrate è quello di una parte in campo, non di un arbitro. L’accusa,banalizzando,sostiene che D&G sono in «conflitto di interessi», ma utilizza per i suoi scopi un’Agenzia che lo è altrettanto. Bum. Mica male, soprattutto in una Procura che ha stretti, strettissimi legami con l’Agenzia. Ps. A proposito di Procura di Milano, movimenti in corso. Arriva Nunzia Gatto come aggiunto, risolvendo così la querelle che si era aperta con l’altro aggiunto (in grande spolvero) Alfredo Robledo.
Giovanni Salvi dovrebbe invece sostituire all’antiterrorismo Armando Spataro, al quale però Bruti Liberati vorrebbe, per la sua esperienza, trovare il modo di affidare un qualche ufficio di coordinamento.
Francesco Greco agli amici racconta ( ma nessuno gli crede) che vorrebbe andarsene in pensione. Il tam tam della Procura è invece convinto che Greco con il pm romano Ielo (spesso a Milano), abbia invece messo le mani su un filone importante dell’inchiesta Finmeccanica.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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