Cronache

Il teatro «Albatros», unica voce a difendere il bene del dialetto

Il teatro «Albatros», unica voce a difendere il bene del dialetto

Caro Lussana, la spiacevole situazione del teatro Albatros, evidenziata nel corso di una conferenza stampa della quale il Giornale ha dato conto nella corrispondenza di Marta Cerruti del 23 scorso, mi induce a due riflessioni, una specifica ed una più generale.
La prima concerne l'atteggiamento del DopoLavoro Ferroviario, titolare, in concessione, dei muri del teatro a loro volta concessi, per la gestione e la produzione teatrale e non solo, da cinque anni, alla Compagnia de «I Caroggè». Nessuno, e men che meno io, intende negare il diritto del proprietario a utilizzare, come più gli aggrada, il proprio bene anche per trarre dallo stesso un giusto compenso. Nessuno, e men che meno io, ritiene che le situazioni di mero fatto possano pretermettere tale diritto per una sorta di concorrente e poziore diritto d'occupazione «leoncavallesca». Ma i fatti, nel caso di specie, sono diversi per alcuni motivi sostanziali.
a) Il Teatro Albatros era diventato una specie di «buco nero-scatolone vuoto» via via sempre più fatiscente, anche a scapito del valore patrimoniale del bene. Occorreva, come suol dirsi, riportarlo all'onor del mondo, in primis onore teatrale e culturale connesso alla natura specifica dello stesso. Si tenga presente che le Ferrovie avevano, a suo tempo (sicuramente fine Ottocento), costruito quel teatro quale sorta di risarcimento alla delegazione ed ai suoi cittadini, per il «vulnus» (necessario, ma pur sempre tale) inferto con il tracciato ferroviario.
b) Il Dlf chiese (ed ottenne) i sostanziosi contributi della legge statale volti alla ristrutturazione ed alla messa in sicurezza del Teatro onde riaverne l'agibilità, contibuti di assoluta importanza ed in relazione alla cui erogazione lo stato vincola la destinazione all'uso teatrale. Ciò senza contare alcuni contributi della Provincia.
c) Così stando le cose, il liberismo cui accennavo sopra deve essere un po' rivisto e riconsiderato. E, nelle considerazioni e nelle valutazioni di opportunità e di merito, non può non tenersi conto del fatto che «i Caroggé», cui il teatro è stato affidato, per scelta del Dlf, con un contratto di comodato gratuito, lo hanno gestito per cinque anni.
d) Contratto gratuito ben a ragione, quando l'immagine era totalmente da ricostruire, quando gli spettatori erano, sì e no, limitati a qualche familiare e pochi intimi, quando le spese di gestione ordinaria, ovviamente poste a carico del gestore, superavano gli incassi.
e) Conosco fin dalla nascita «I Caroggé» e li stimo per il loro più che decennale impegno nel teatro in dialetto; non vorrei, quindi, che tale circostanza mi facesse velo nel riconoscere, sovrastimandoli, i loro meriti ed il loro «diritto morale» a proseguire nell'attività, proprio ora che, in virtù della lunga semina, può cominciare a raccogliersi qualche frutto, con buona partecipazione di tutti, anche della proprietà, alla loro spartizione. Mi astengo, quindi, dal ricordare le tappe del loro impegno del quale, peraltro, la tua collaboratrice ha certo preso buona e ampia nota nel corso della su richiamata conferenza stampa. Qui voglio soltanto richiamare quegli aspetti che ho evidenziato per indurre anche chi, come noi, ritiene la proprietà ed i suoi corollari, valori essenziali, ad una più approfondita meditazione.
Ma l'occasione mi è gradita (o, meglio, sgradita) per affrontare un altro aspetto della questione, come dicevo prima, più generale: quello del teatro in dialetto e della sua sopravvivenza. Forse un po' protervamente, per i motivi sopra esposti, il presidente del Dlf ha dichiarato al «secolo» che non è suo compito farsi carico dei problemi della compagnia «Provvedano - ha detto - le istituzioni a cercar loro un'altra sede».
E, allora, parliamo un po' delle istituzioni e chiediamo loro, ancora una volta, cosa intendono fare non solo per il teatro dialettale, ma per la conservazione del dialetto (nel cui ambito, il teatro è una delle voci più rimarchevoli). E qui punto il dito nei confronti delle attuali amministrazioni, ma anche nei confronti della precedente Giunta di Centro-destra alla quale do atto della bella ristrutturazione del «Teatro della Gioventù», ma che rimprovero di aver fatto dormire nei cassetti della commissione cultura una legge organica per la tutela e la valorizzazione del dialetto analoga a quella della quale si sono dotate la maggioranza delle regioni italiane nel quadro delle normative europee e nazionali volte alla salvaguardia di quei patrimoni culturali che trovano la loro espressione nelle lingue c.d. minoritarie o locali. Neppure è stata in grado di approvare, in fine legislatura, una leggina-stralcio per il Teatro.
Ma il passato è (purtroppo inutilmente) passato. Parliamo di oggi e del futuro. Ripeto: cosa intendono fare? Ritengono, le signore amministrazioni, che la tutela di quel patrimonio, culturale e di tradizioni, vada perseguita, ancor più oggi che la nostra cultura subisce continui ed indiscriminati assalti, oppure che non metta conto di parlarne? Perché, se la risposta è quest'ultima, ce lo dicano. Come operatori ne prendiamo atto, come cittadini ci attrezzeremo. Ma se questo non è il loro intendimento (o non hanno il coraggio di manifestarlo in questo modo), non si trincerino dietro l'ipocrita carenza di fondi, sbandierata per gli altri, inesistente per gli amici. Nessuno afferma di sottrarre fondi alla sanità o alla scuola per finanziare i «Manezzi». Come ha ricordato il Presidente dell'Associazione per il Teatro genovese, l'amico e commediografo Mario Bagnara, per far vivere, non benissimo, ma decentemente, il teatro in dialetto, basterebbe destinare ad esso il cinque per cento dei fondi che le diverse amministrazioni hanno stanziato e stanziano per la cultura. Quindi, non risorse aggiuntive, ma quelle già individuate. Quindi, sottrazione (modestissima) ai ricchi per destinare le briciole della mensa ai poveri. Con quel misero «cinquepercento» gli enti pubblici potrebbero, altresì, imporre obiettivi e criteri di crescita all'intero settore. Ma questa è un'altra storia.
Dunque, la campana dell'Albatros suona per tanti. Ma non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Caro Lussana, non ritieni di assumere anche questa, nell'ambito delle battaglie civili delle quali la tua pagina si è fatta solerte promotrice in questi anni? Con la stima di sempre
(alias Angelo Onorato Freda)

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