Teatro

"Il teatro si deve sempre attualizzare"

Il regista apre la stagione della Fenice con "Les Contes". "La libertà è immaginazione"

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Per Damiano Michieletto (1975) basta il nome. È il regista italiano d'opera e di prosa più significativo del nuovo millennio, nel circuito internazionale dei teatri che contano. È cresciuto a pane e palcoscenico, cosa non scontata tuttavia probabile quando la tua città ha nome Venezia. Proprio nel teatro della Serenissima, La Fenice, il 24 novembre, inaugura la stagione d'opera con Les Contes d'Hoffmann di Offenbach, dirige Antonello Manacorda.

Alla Fenice, e così pure alla Scala, è alta la percentuale di spettatori stranieri: accolti con sprezzo da alcuni frequentatori e critici. Il pubblico straniero che male fa a un teatro?

«Nessun male. Anzi dimostra che l'opera è un marchio che identifica l'Italia nel mondo. Basta che vengano proposte produzioni di qualità e non menu turistici come fanno alcuni ristoranti».

Voi registi di ultima generazione non potete più contare sui budget di un tempo. Quali le ripercussioni?

«Non credo siano necessarie certe risorse per poter realizzare le proprie idee, anzi talvolta i limiti aguzzano l'immaginazione, spingono a trovare nuove soluzioni».

Il regista passa per quello che arriva e detta la linea. Un despota (non sempre illuminato)

«Che il regista porti idee è cosa naturale e dovuta, ma non è che si autoinviti. C'è qualcuno che scommette con lui su un progetto. È questione di corresponsabilità».

L'opera ha tempi, e non solo, fuori dal (nostro) tempo. Un problema?

«No, lo considero un punto di forza. L'opera deve avere il coraggio di essere fuori dal tempo, per esempio non dovrebbe sforzarsi di assecondare l'onda ipertecnologica contemporanea, semmai dovrebbe difendere la propria diversità: qui sta la sua bellezza, il fascino di un'esperienza che vivi solo lì. Entri, ti siedi e ti immergi in un racconto mitologico o storico che ti porta indietro nei secoli».

E allora perché attualizzare sempre e comunque?

«Bisogna attualizzare usando la leva di un linguaggio teatrale contemporaneo. Devono essere attuali la recitazione, l'uso delle luci e degli spazi».

Come è cambiato il pubblico da quando fa il regista, suppergiù 20 anni?

«È cambiato il livello di concentrazione. Abbiamo ritmi diversi, tutto è più veloce. Ma proprio per questo, come dicevo, l'opera deve difendere la sua diversità, le sue lunghezze».

Alla Scala, oltre a Medea di Cherubini, realizzerà la prima assoluta de Il nome della Rosa su musiche di Francesco Filidei. Difficilmente le opere nuove vengono affidate a registi di primo livello. Cosa è successo?

«Che rompo a tal punto che poi mi chiamano. Faccio sempre notare che la lirica non deve accontentarsi di celebrare il patrimonio del passato, ha anche il dovere di lasciare nuovi semi».

Si sente più libero quando lavora a un titolo nuovo di zecca?

«No. La libertà è quella della immaginazione, e agisce indifferentemente sul nuovo e sul vecchio».

Torniamo a Il nome della rosa. A che punto è?

«Sono in fase ascolto. Nulla di preconfezionato. Cerco di capire cosa sta scrivendo Filidei, vorrei che le intuizioni musicali fossero teatralmente efficaci».

A Venezia vedremo Les Contes che hanno debuttato a Sydney e che gireranno per l'Europa. Può essere che una produzione funzioni diversamente a seconda dei teatri e continenti?

«I gusti cambiano da teatro a teatro, anche nella stessa città. Però le belle produzioni funzionano sempre. Stessa cosa per i titoli: Traviata è amata ovunque».

Parla spesso di «immaginazione». L'assale, talvolta, il timore che la vena possa venir meno?

«Quando mi è capitato era perché avevo paura di sbagliare, di esagerare, di osare. Non bisogna essere succubi del giudizio altrui, vale per la vita privata e professionale. L'Infinito di Leopardi è la celebrazione della forza dell'immaginazione, di quel che puoi immaginare dietro a una siepe e a un sipario.

Bisogna saper ascoltare la propria immaginazione e trasmetterla ad altri evitando però che diventi un sogno vanaglorioso e autoreferenziale».

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