Val la pena inseguirlo per la penisola Nell’occhio del labirinto.
Il monologo dell’attore Simone Tudda (veramente bravo) ha calcato una quindicina di teatri in un anno in diverse regioni. Lo abbiamo visto al Gerolamo di Milano, scritto e diretto da Chicco Dossi, dedicato alla vicenda giudiziaria che ha portato alla morte Enzo Tortora (anche se più che “vicenda” sarebbe meglio definirla “ingiustizia giudiziaria”).
Oggi più che mai attuale visto che saremo chiamati presto a esprimerci sulla riforma della giustizia: siamo noi favorevoli alla separazione delle carriere? Alla divisione fra giudicanti e inquirenti?
Ma poi basterà questa riforma a evitare simili derive?
Lo spettacolo è di quelli che ti resta dentro perché l’ingiustizia subita da Tortora pare capitata per scuoterci dal torpore. Un addormentamento (più corretto in questo caso definirlo rincoglionimento) fatto di curiosità morbosa (“hai visto il famoso presentatore camorrista?”), di impulsiva tendenza a condannare a dispetto di ogni presunzione di innocenza e di quella smania giornalistica di esibire lo scoop “a qualunque costo” che peserà sulle coscienze in eterno.
Tudda ci ha messo del suo, l’intensità, l’empatia, la bravura, dalla capacità di scegliere le parole a quella di muoversi agilmente sul palco.
Lo spettatore torna agli anni di “Portobello”, a una trasmissione popolare condotta in modo raffinato e colto da piacere anche ai detenuti di Regina Coeli: è il destino delle cose belle. E da indurre il camorrista (lui sì) Giovanni Pandico, detto ‘o pazzo’, a spedire i centrini ricamati realizzati in carcere per poterli vendere al mercatino televisivo. Nessuno si accorse di quel pacco ma la procura stabilì che, sicuro, era una prova di colpevolezza per Enzo Tortora.
L’attore, solo sul palco, alterna la terza persona alla prima, e ci fa intuire cosa sia l’occhio del labirinto, la prigionia interiore, di chi non intravede uno spiraglio di luce.
Tortora aveva chiesto di essere cremato con una copia della Storia della colonna di infame, scritta da Alessandro Manzoni, nella quale si racconta il processo che portò all’esecuzione di Giacomo Mora, accusato ingiustamente di essere untore.
Sul suo monumento, una colonna di marmo, al cimitero Monumentale di Milano volle incisa la scritta “che non sia un’illusione” a significare: “Spero che il mio sacrificio sia servito a questo Paese e che la mia non sia solo un'illusione".