Mario Sechi
da Roma
Un attacco preventivo contro l'Iran? È l'unica soluzione possibile contro il regime di Teheran che vuole la bomba atomica. Le parole che per ora i governi occidentali non vogliono pronunciare sono sulla bocca degli esperti di strategia da mesi. Efraim Inbar, direttore del Centro di studi strategici Begin-Sadat (Besa Center) dell'università israeliana di Bar-Ilan, non ama i giri di parole: «Ora nell'agenda internazionale ci sono le sanzioni economiche a cui l'Iran è vulnerabile certo, ma siamo di fronte a un'illusione. Le sanzioni economiche infatti non funzionano con quel tipo di regime. Ricordate Saddam? Ricordate Castro? Hanno continuato a perseguire i loro piani. E il regime iraniano non cambierà la sua politica» ha spiegato il professor Inbar durante una conferenza a porte chiuse che si è tenuta alla Summer School di Magna Carta.
Inbar è stato advisor del governo israeliano nel settore strategico, è considerato uno dei più importanti esperti del Medio Oriente, è columnist del Jerusalem Post e i suoi studi sono letti con grande attenzione nel mondo politico e militare. Il Besa Center che dirige inoltre è un'istituzione non-partisan la cui autorevolezza è indiscussa. Inbar non lascia spazio alla diplomazia delle parole: «L'unica via che rimane è l'opzione militare. Ci sono abbastanza notizie di intelligence sullo sviluppo nucleare iraniano, sufficienti per consentire l'eliminazione di parte delle installazioni nucleari iraniane». Alla domanda su chi deve prendere l'iniziativa, Inbar propone due scenari. Il primo ha il suo epicentro politico a Washington: «Gli Stati Uniti sono attualmente posizionati su due lati dell'Iran: Irak e Afghanistan, non hanno necessità di invadere l'Iran, possono bombardarlo o agire con forze speciali. E per fare questo ci vuole un presidente con la stoffa del cow boy. Bush lo è. Non è troppo condizionato dalla politica interna e dalla rielezione perché è già al suo secondo mandato. Nell'opinione pubblica americana inoltre l'Iran nucleare è percepito come una reale minaccia». Il secondo scenario sarebbe conseguenza delle decisioni della Casa Bianca: «Se gli Stati Uniti vogliono essere mantenere il loro status di unica superpotenza, se tengono davvero alla pax americana devono agire. Altrimenti questa decisione toccherà a Israele, che sa quello che deve fare. Israele a quel punto dovrà prendere questa scelta difficile. Israele, meno degli Stati Uniti naturalmente, ha la capacità di rallentare il programma nucleare iraniano, forse non distruggerlo. Ma rallentarlo sì e sarebbe già qualcosa».
Le mosse iraniane nella lettura proposta da Inbar - che dopo l'appuntamento con la Fondazione Magna Carta il 12 settembre prossimo sarà a Washington, ospite dell'Hudson Institute, il think tank in forte ascesa che ha raccolto le tesi dei neoconservatori - hanno una logica ferrea e spietata: «L'Iran vuole esportare l'ideologia della jihad, è un crazy-State, uno Stato pazzo. Implementa la sua agenda di politica estera in maniera non convenzionale. Basta ascoltare le cose che dice il presidente Ahmadinejad. L'Iran cerca di emulare la strategia della Corea del Nord, sa che se avrà il nucleare, difficilmente potrà essere attaccato. Il nucleare è lo strumento di un disegno egemonico». La tattica della dirigenza iraniana? «È quella del bazar. Il bazar è una eccellente scuola per procrastinare, rinviare. L'Iran non accetta l'ultimatum dell'Onu e continua ad arricchire l'uranio. L'Iran parla e nel frattempo costruisce la bomba». Logica spietata perché con il regime di Teheran non funziona la strategia della guerra fredda, quella della deterrenza: «Non è una leadership sensibile ai costi umani di un conflitto.
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