TELEDIARIO Le sfumature di «Buongiorno Cina»

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Buongiorno Cina (mercoledì su Raitre, ore 23,40) è un documentario che vale la pena guardare per almeno due motivi. Il primo ha a che fare con l'importanza crescente che la Cina ha sugli equilibri (e squilibri) del mercato economico mondiale, ora che sta diventando a tutti gli effetti una nazione non più insensibile alle lusinghe della competitività. Un documentario che ci dà conto dei progressi e delle contraddizioni del nuovo modello cinese, senza dimenticare il peso culturale e politico della sua antica tradizione, fornisce informazioni ovviamente utili. Ma la curiosità di questo viaggio in cinque puntate firmato da Nene Grignaffini e Francesco Conversano, già autori del pregevole Strade blu (incentrato sulla provincia americana) va al di là dell'aspetto puramente informativo. È infatti un reportage pesantemente condizionato dalla censura delle autorità cinesi, di cui gli autori hanno informato stampa e pubblico fin dalla fase di presentazione del loro lavoro. Tutte le persone intervistate, fossero gente comune, operai, disoccupati, imprenditori, artisti o scrittori parlavano sotto il controllo (preventivo o immediatamente successivo alle loro dichiarazioni) del governo cinese, vigile e attento a che non trapelassero valutazioni troppo critiche di un Paese che sta investendo molto anche sul piano dell’immagine. Di conseguenza poteva rimanere fuori da questo controllo, eventualmente, solo il lavoro di post produzione, ad esempio la voce fuori campo. Tutto il resto era sub iudice, direttamente o potenzialmente inficiato dal controllo del Grande Fratello cinese. La circostanza, abbastanza insolita in un sistema informativo in cui la maggior parte dei documentaristi tende a minimizzare le limitazioni al proprio lavoro che pure ci sono in molte parti del mondo, rende Buongiorno Cina ancor più stuzzicante. Perché lo spettatore, almeno quello a conoscenza dell’antefatto, è portato a leggere tra le righe dei racconti della gente intervistata e a scrutare con occhio indagatore le facce, le espressioni, le sfumature, tutto ciò che appartiene alla sfera del «non detto».

Si potrà quindi sorridere di certe dichiarazioni in cui un operaio considera giusta la pratica del licenziamento (perché stimolerebbe la creatività di chi è rimasto senza lavoro) o si potrà al contrario apprezzare il coraggio del fotografo che nell’ultima puntata riesce a fornire valutazioni all’occorrenza severe non solo sulla rivoluzione culturale degli anni ’60 ma anche sulla decadenza e corruzione dell’attuale tessuto sociale cinese. In ogni caso, Buongiorno Cina è un esempio di reportage in cui, paradossalmente, la censura si rivela un valore aggiunto anziché un handicap.

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