Il «tenero» D’Alema che rimpiange il suo Pci

È tenerissima - dal punto di vista umano - l’intervista a Massimo D’Alema di Pietro Spataro, pubblicata ieri sull’Unità. Neanche un’intervista, per la verità, perché non ci sono domande: piuttosto un lasciarsi andare ai ricordi, in modo inconsueto per il personaggio. Tanto che il primo istinto è chiedersi cosa ci sia dietro, cosa voglia comunicare in realtà un uomo di certo non semplice e che non ha affatto tirato i remi in barca. Ma non voglio fare dietrologie, vizio nazionale: se stessi scrivendo una biografia di D’Alema prenderei le sue parole come una rimembranza sincera, senza filtri o scopi politici, sulla sua vita di giovane comunista. Tanto più interessante, dunque, di un messaggio politico. Perché ne viene fuori un mondo e un modo di pensare sorprendente, per chi non ci è stato dentro come lui.
«Non mi sono mai pentito di essere stato un militante e un dirigente del Pci», è l’inizio. «Tra luci e ombre è stata una grandissima esperienza politica e umana», è la conclusione. Il discorso non fa una piega. Perché D’Alema dovrebbe pentirsi? Credeva in quell’idea, pensava che fosse buona, e lottava per realizzarla. C’era da instaurare l’uguaglianza tra gli uomini, o almeno una maggiore giustizia sociale. Di vittime - deportazioni, morti - il Pci non ne ha mai fatte nel corso della vita di «Baffino», così detto forse per affettuosa assonanza con «Baffone». Classe 1949, aveva sette anni quando Chruscev denunciò i crimini di Stalin, e 19 durante l’invasione sovietica contro la primavera di Praga. Lui, D’Alema, era proprio a Praga in quei giorni: «All’alba del 18 agosto mi affacciai dal mio alberghetto e vidi i carri armati sovietici. Scesi in piazza con i ragazzi cecoslovacchi, si disegnavano le svastiche sui tank. Quando arrivò la notizia che il Pci aveva disapprovato quell’invasione fu motivo di grande orgoglio». Già, ma se il partito non avesse «disapprovato»? La risposta è indiretta e abbastanza parziale da essere autoassolutoria: «Però, da allora fino all’82» (per non dire fino al 1989) «quando Berlinguer parlò dell’esaurimento della spinta propulsiva, sono troppi anni rispetto alla consapevolezza che quello era un mondo che nulla aveva a che fare con quel che pensavamo noi».
Troppi anni davvero, per non chiedersi ancora oggi cosa sarebbe accaduto in Italia se il Pci avesse conquistato il potere nel periodo dell’Internazionale comunista, con l’Unione Sovietica ancora in grado di sfidare l’Occidente. D’Alema non se lo chiede, sembra di capire, perché vive nella serena tranquillità, che il Pci non vinse né governò, che la fortuna sua, del partito e degli italiani, è stata quella.
Per cui, oggi, può abbandonarsi alla dolcezza dei ricordi. Ma è proprio questa dolcezza la parte più sorprendente e rivelatrice delle sue dichiarazioni. «Mi sono iscritto al Pci nel 1963, avevo 14 anni e nel mio liceo a Genova ero l’unico comunista». Davvero un po’ troppo piccolo perché si possa credere a una precisa coscienza politica, e infatti prosegue precisando che «la riscoperta della politica» avvenne quattro anni dopo, alla Normale di Pisa. Traspare un giustificato orgoglio in quel citare la Normale di Pisa, dove gli iscritti al Pci erano tre compreso lui, mentre «dopo cinque anni 84 studenti su 101 erano tesserati». Poi un volo di modestia: non fu merito suo, ma «il segno di un cambiamento d’epoca».
Però il partito non cambiava affatto, nel suo spirito di disciplina quasi religiosa che ha attratto tanti ma anche respinto tanti altri. Sottotono: «Certo, in quel partito succedevano anche cose curiose per un giovane». A lui accadde che, essendo capogruppo del Pci al comune di Pisa, venne «caldamente invitato», a sposarsi, perché ormai era una personalità pubblica. Aveva 21 anni. «Obbedii, era un’epoca in cui non era facile fare diversamente da quel che diceva il partito». Massimo dunque non obietta sul principio, bensì sulla fattibilità: «Risposi che non avevo una lira». Nessun problema, il partito pensò a tutto per assicurare un matrimonio «non lungo ma felice». È ancora il partito a decidere per lui, che vorrebbe restare a Pisa, mentre Berlinguer nel 1975 lo vuole Segretario della Fgci, la potente federazione dei giovani comunisti. D’Alema obbedisce di nuovo, benché «allora» al Comitato Centrale si discutesse «in modo conformista; se dicevi “sono d’accordo con la relazione” e non “sono pienamente d'accordo”, voleva dire che avevi qualche dubbio».


Se ripenso ai miei anni Settanta, così liberi e giocondi, sono così felice di non essere stato comunista (né fascista). Ma anche D’Alema è felice: che il suo partito non abbia vinto, allora.
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