Fognini sulla Luna, ma era deserta

Il problema di Fabio non sono i numeri e le coppe, ma il peso della magia e della bellezza

Fognini sulla Luna, ma era deserta
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I rimpianti non hanno senso, non servono e non ti fanno neppure vivere bene. Il tennis di Fabio Fognini è un incantesimo, bello e fragile, imprevedibile, spesso sfuggente, troppe volte irritante, con bestemmie e maledizioni che restano sospese, come palombelle indefinite. Non è vero che non è un vincente, perché arrivare tra i primi dieci al mondo è roba per pochi. Se poi l’impresa avviene negli anni d’oro delle tre leggende il valore è incommensurabile.

Non si calcola su un foglietto di carta. Quella vittoria a Montecarlo, poi, ha ricordato ai tennisti italiani che si può sognare. Era da una vita che si festeggiavano le briciole. Il problema di Fabio non sono quindi i numeri e le coppe, ma il peso della magia e della bellezza. È quello che resta dopo un giorno d’estate, su un’erba così verde da sembrare finta, nel posto dove la nostalgia sa di fragole. Qui è andato in scena l’ultimo giro di giostra di Fogna, la sfida al ragazzo che lotta con se stesso per non diventare un cannibale e non smette di stupirsi davanti a un trentottenne che per un giorno è tornato a impugnare la bacchetta di Prospero, l’eroe della «Tempesta» di Shakespeare. E la meraviglia che ancora una volta si ferma a un passo dalla gloria e se ne va piangendo quasi di gioia con il Centre Court che non sa più da che parte guardare, e applaude, e ancora applaude, tutti in piedi, per dire «troppo bravo» a un vecchio cattivo ragazzo che non fa più a botte con i suoi demoni. È la standing ovation per una carriera che, si sussurra, avrebbe potuto essere diversa. Come, però, nessuno lo sa. È stata quello che è stata e non si misura in imprevisti e probabilità. Fognini non può che essere Fognini. Se questo è vero allora cos’è quella strana malinconia che ti prende il giorno dopo, dopo aver visto quelle carezze sospese, e sentito quegli «ohhhh» uno dopo l’altro, come brividi sotto il sole, con le mani e gli occhi di chi sta sugli spalti che continuano a rappresentare l’incredibile. Ma che gioco è questo? Dove l’avevamo perduto? Cosa resterà?

Non è rabbia per quello che non è stato.

È paura. È il pensiero che di tutti quegli attimi segnati per essere immortali non resti nulla. Forse un racconto, una rimembranza, un dialogo tra due persone che proprio in quel momento, mentre stanno parlando, si rendono conto che stanno invecchiando. Ti ricordi quando Fognini ha quasi sconfitto Alcaraz a Wimbledon?

Sì, quasi, un quasi bellissimo, ma che un po’ alla volta lascerà la scena, senza trascinare più alcuna emozione, fino a perdersi banalmente nella pioggia, come direbbe un qualsiasi umanoide di Blade Runner. La beffa magari sarà proprio questa, che il più umano, troppo umano, dei tennisti italiani verrà ricordato, con finto amore, dall’intelligenza artificiale. E gli altri? Passerà. Non sai neppure se ci faranno un film come con Ilie Nastase, per raccontare un matto, un buffone e non l’incarnazione novecentesca, in scarpe da tennis, di Cyrano de Bergerac.

Quanto della bellezza dei gesti di Fognini, di quella magia, irritante, verrà sommersa

dai conti? Fabio ogni tanto lo fa capire: mi piace Jannik perché non ci vedo i miei difetti. È così che fa pace con se stesso e butta via la tentazione dei rimpianti. Fognini è volato sulla luna e non ci ha trovato nulla.

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