Terrorismo: i rischi dell’asse tra Siria e Iran

Massimo Introvigne

La visita del presidente iraniano Ahmadinejad a Damasco - che sarà seguita da quella del più fine diplomatico del regime degli ayatollah, Rafsanjani - preoccupa molto l’America e Israele. L’Iran e la Siria sono ai primi posti nella lista degli «Stati canaglia» dell’amministrazione Bush e la loro collaborazione nel sostegno al terrorismo appare sempre più evidente. Prove sono emerse negli ultimi giorni in relazione in particolare a due gruppi: il Jihad Islamico in Palestina e quanto rimane dei sostenitori irriducibili di Saddam Hussein in Irak. A differenza di Hamas - che rispetta una tregua di fatto in attesa delle elezioni palestinesi, dove spera in una significativa affermazione - il Jihad Islamico è un gruppo molto più piccolo, privo di radicamento sociale e politico e che «parla» solo attraverso il terrorismo. Dopo un flirt con Al Qaida sembra oggi cercare armi e finanziamenti a Teheran.
In Irak gli ayatollah iraniani - che hanno il duplice scopo di dare fastidio agli Stati Uniti e al Grande Ayatollah Sistani, loro rivale per il controllo del mondo sciita internazionale - da mesi non possono più sostenere il terrorismo legato ad Al Qaida di al Zarqawi. Quest’ultimo - attirandosi qualche critica dagli stessi Zawahiri e bin Laden, che con gli sciiti hanno sempre negoziato - negli ultimi tempi si è chiuso in un fanatismo anti-sciita che considera gli sciiti non musulmani e profana i loro luoghi sacri. Ecco allora che si realizza l’impensabile: gli ayatollah iraniani si riavvicinano all’ala più estremista dei seguaci di quello stesso Saddam Hussein che per anni è stato il loro più implacabile nemico. Mentre molti «saddamiti» trattano con il governo di Bagdad un rientro indolore nella vita politica, un manipolo di irriducibili continua l'attività terroristica. Nonostante le inimicizie passate fra gli Assad e Saddam, in nome del comune anti-americanismo questi irriducibili hanno trovato rifugio e protezione in Siria. Ed è grazie all’intesa con la Siria che gli iraniani possono a loro volta armarli e sostenerli.
Si avrebbe torto a considerare il nascente asse tra Siria e Iran un mero espediente politico. Le sue motivazioni profonde sono teologiche. Dagli sciiti, che considerano come soli califfi legittimi Ali, cugino e genero del Profeta e i suoi discendenti, si staccano nel Medioevo le sette dette iper-sciite che ritengono Ali un’incarnazione divina e il rivelatore di dottrine esoteriche. Tra questi ci sono gli alauiti siriani, minoranza (12%) in un Paese all’ottanta per cento sunnita. A causa di una precisa scelta politica del colonialismo francese, gli alauiti sono stati promossi ai più alti ranghi dell’esercito siriano, il che ha in seguito permesso alla potente famiglia alauita degli Assad di impadronirsi della Siria e di imporvi una classe dirigente quasi tutta alauita. Fino alla rivoluzione del 1979 gli sciiti iraniani, come quelli iracheni, hanno considerato gli alauiti degli eretici.

Dopo il 1979, alla ricerca di alleati internazionali, Teheran ha cominciato a considerare i membri delle sette iper-sciite - non solo gli Alauiti siriani, ma anche gli Alevi turchi e i Bektashi albanesi, entrambi politicamente assai attivi - come «fratelli separati» che possono essere riportati all’ovile sciita imponendo loro modeste correzioni di rotta. Fondata o no in teologia, la tesi manifesta il sogno di una «internazionale sciita» che possa fare concorrenza ad Al Qaida, sempre più in mano a sunniti anti-sciiti, come centrale mondiale del terrorismo.

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