Gli errori dell'ex presidente: la "sua" violenza politica adesso gli si ritorce contro

In democrazia l'uso delle armi non è mai giustificabile. Donald spande odio da anni

Gli errori dell'ex presidente: la "sua" violenza politica adesso gli si ritorce contro
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Doverosa premessa: in democrazia, chi usa la violenza contro gli avversari politici ha sempre torto. Per quanto detestabile e inquietante possa risultare la figura di Donald Trump, per quanto legittimamente si possa ritenere che il mondo sarebbe un posto migliore senza di lui, usarla come bersaglio di un kalashnikov non è ammissibile. Il candidato Trump va battuto a suon di voti, non di fucilate. E pazienza se lui, pur eventualmente sconfitto oltre ogni possibilità di dubbio come già è accaduto nel 2020, continuerà a sostenere di aver vinto: se, come ha già minacciato, scatenerà nuovamente nelle strade d'America i suoi seguaci più esagitati, provvederà la Guardia Nazionale.

Scansati gli equivoci, veniamo al punto. La sua accusa al presidente Joe Biden e alla sua vice Kamala Harris di «linguaggio incendiario» contro di lui, quasi fossero i mandanti dei suoi mancati killer, è sfacciata a dir poco. Il Trump preso di mira due volte da maniaci in armi raccoglie ciò che ha seminato: odio. Quell'odio che lui diffonde a piene mani da anni per acchiappare voti, come aveva rifatto appena poche ore prima della fallita aggressione sul campo da golf mandando in giro un post rancoroso contro una pop star colpevole di pubblico sostegno alla sua avversaria nelle imminenti presidenziali. Il testo di quel post diceva semplicemente «ODIO Taylor Swift», con la parola odio a tutte maiuscole a ricordarci che lui, Trump, è il primo responsabile dell'incanaglimento della politica americana.

Se semini odio, qualcosa ti tornerà indietro. Ed è pressoché inevitabile, in un Paese di 330 milioni di abitanti dove anche la verduraia sotto casa tiene un mitra nel cassetto, che qualche nevrastenico finisca col credere di poter risolvere i suoi problemi e quelli degli Stati Uniti sparando addosso a un candidato presidente. È paradossale, tra l'altro, che proprio Trump sia il difensore più convinto del diritto di ogni americano di armarsi fino ai denti, senza capire che, con le sue aperte minacce a chi non condivide le sue vedute, è lui stesso la prima causa di quella violenza politica che oggi gli si ritorce contro.

In realtà la violenza non sembra preoccupare il candidato Trump. Oltre ad averla alimentata a Capitol Hill il 6 gennaio 2021 contro le stesse istituzioni che aveva il dovere di garantire e proteggere, oltre ad aver promesso «un bagno di sangue» se non sarà rieletto nel prossimo novembre, continua a ripetere di voler scatenare, quando (non «se»: «quando», perché ha già detto che una sua sconfitta potrebbe spiegarsi solo con brogli ai suoi danni) tornerà alla Casa Bianca, una caccia all'uomo gigantesca in tutti gli Stati Uniti.

Obiettivo della «più grande deportazione della storia americana» (così si compiace di definirla, senza spiegare dove manderebbe tutta questa gente) sono quegli 11 milioni ma lui afferma senza prove che siano 21 di immigrati irregolari sparsi in tutti gli Usa. Facile immaginare come finirebbe: con brutalità e violenze a livelli mai visti dai tempi della guerra di Secessione, con gli estremisti di destra e di sinistra ad ammazzarsi nelle strade.

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