Terzani, quel cerchio eterno che comprende vita e morte

Un lungo dialogo con il figlio Folco per riassumere il senso di un’esistenza

«La paura mi sommerge, come un’onda. I vivi non sanno nulla. Insegnatemi, o morti, a morire senza paura, o almeno senza orrore. Perché la morte è un non-senso, come la vita». Parole forti tratte da Il derviscio e la morte di Meša Selimovic (Baldini & Castoldi), uno degli intellettuali più importanti della vita culturale jugoslava sotto Tito. Molto si è scritto sulla morte e sull’arte di morire, ultimo tabù di una società moderna che aspira alla vita eterna. Di libri sull’argomento sono pieni gli scaffali, da Il caro estinto del feroce Evelyn Waugh, perfetto humor nero per esorcizzare, a testi di grande fascino come il Bardo Thodol, il libro tibetano dei morti (Neri Pozza) o L’uomo e la morte di Edgar Morin, illuminanti nella loro complessità (soprattutto il Bardo che richiede uno studio per l’interpretazione della simbologia). Una piccola premessa, questa, per parlare dell’ultimo libro firmato Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio (Longanesi, pagg. 466, euro 18,60), una sorta di «biografia parlata» che assolve, nella sua immediatezza e profonda semplicità, il compito che la letteratura dovrebbe fare, cioè fornire nuovi punti di vista e possibilità. E «possibile» - ma soprattutto non spaventosa - appare la morte nel libro del grande giornalista scomparso, dove tutto assume un senso di accettazione e serenità al di là di ogni retorica. Commovente è già la prefazione, in cui Terzani, l’infaticabile giramondo «alla ricerca della verità», tre mesi prima di morire convoca il figlio Folco a Orsigna, nella loro casa di montagna, per raccontargli la Vita. «Fai presto - gli scrive il padre in un telegramma - perché non credo di avere molto tempo. Fai i tuoi programmi e io cerco di sopravvivere per un po’ per questo bellissimo progetto, se sei d’accordo». Ed è così che padre e figlio si incontrano sotto un albero, unico testimone un registratore, e parlano della vita passata, delle passioni e dei divertimenti. Un’esperienza profondamente umana di chi si prepara alla fine dell’esistenza e chiude un cerchio, in pace con se stesso e l’universo intero. È questo il messaggio forte di Terzani, la miglior risposta alle paure (diffuse e comprensibili) del sopra citato Selimovic, dove la morte è solo nulla, spavento e orrore. Terzani riassume se stesso e il senso della sua esistenza, il viaggio che un giorno, dopo la sua morte, il figlio avrà il compito di raccogliere e raccontare. Certo, si leggono con passione i passaggi dove i due parlano di un’infanzia povera a Firenze e i primi passi nel mondo del giornalismo. E interessanti sono i resoconti dove il grande inviato dello Spiegel narra le violenze della guerra in Vietnam, la delusione del comunismo in Cina, l’orrore del futuro visto in Giappone e i ricordi personali di viaggi avventurosi in zone proibite. Ma non è questo il valore più profondo del libro.

Il messaggio sottile è un invito a prepararsi alla morte qui e ora, in ogni istante, per vivere in modo più ricco, intenso e pieno la vita stessa. Come quella di Terzani che ha trovato al termine del suo percorso il senso più alto nell’incontro con il figlio. Un testamento per tutti.

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