Roma «Non sopporto che vengano utilizzati strumenti così per raggiungere l’obbiettivo: viviamo in un Paese di trogloditi». La prima dichiarazione di Augusto Minzolini non è solo uno sfogo a caldo. È una convinzione, a questo punto dei giochi: «l’obbiettivo» è la sua rimozione dalla direzione del Tg1. Altro non può essere una decisione di tribunale che prevede il suo rinvio a giudizio per peculato in merito a una vicenda di carta di credito che lo stesso Minzolini aveva già risolto con la restituzione alla Rai delle somme contestate. Una vicenda che la Corte dei Conti, massima autorità competente in materia di sprechi, ha archiviato. Minzolini è accusato di aver superato, nell’arco di 14 mesi, il budget a sua disposizione per 65mila euro. La decisione è del gup di Roma Francesco Patrone. Prima udienza l’8 marzo.
La Rai ha annunciato che si costituirà parte civile contro il direttore, il comitato di redazione ne chiede le dimissioni immediate. Su Minzolini si è scatenata, ancor più che in altre occasioni, una valanga politica: lo invitano a lasciare anche Pd, Idv, Fli. Il Pdl esprime solidarietà e lo difende a spada tratta. Il direttore non cede. «Vogliono farmi saltare dalla direzione del Tg1», dice Minzolini, che si definisce «tranquillo ma indignato». E in tutta la storia «ci sono molti elementi non chiari», a partire da «un tempismo» politico «perfetto». Un trattamento che mai era stato riservato «ai miei predecessori».
La storia non è una torbida vicenda di soldi e potere, ma è tutta raccontata dalle lettere, soprattutto quelle scritte dal 2009 al 2011 dall’allora direttore generale Mauro Masi a Minzolini, e viceversa. La carta di credito aziendale era infatti stata accordata da Masi a Minzolini come sorta di «benefit» per alcune rinunce chieste al neodirettore del Tg1. Al momento dell’assunzione infatti, il 5 giugno del 2009, Masi comunicò a Minzolini che il suo stipendio sarebbe stato inferiore del 5% a quello del suo predecessore, e che avrebbe dovuto interrompere la sua collaborazione con il settimanale Panorama.
Minzolini chiese allora come compensazione un benefit identico a quello di cui usufruiva al quotidiano La Stampa, ovvero una carta di credito con una disponibilità di 5200 euro mensili, rendendo conto delle spese a fine mese. Masi gliela accordò. E per 18 mesi, come si legge nella memoria difensiva firmata dall’avvocato Franco Coppi, la Rai non mosse mai nessuna contestazione. Finché a dicembre del 2010 giunse a Masi una lettera di protesta del consigliere Nino Rizzo Nervo. Ma Masi rispose che la carta aziendale rappresentava per Minzolini «una sorta di benefit compensativo», e che ciò era «in linea con quanto avviene sul mercato e con precedenti specifici della stessa Rai». La difesa di Minzolini cita però poi un comportamento diverso di Masi al momento dell’interrogatorio come persona informata sui fatti: in quella occasione l’ex dg parlò di un «errore lessicale» nella sua frase. È per questo che ieri Minzolini ha espresso tutta la sua delusione: l’ex direttore generale «è stato un pusillanime, uno leggero».
Minzolini scrisse comunque immediatamente a Masi, il 21 marzo 2011, quando il dg lo avvisò dei problemi amministrativi: «Per preservare l’azienda e anche la mia persona da attacchi ingiusti e pretestuosi sono pronto a concordare con il capo del personale le modalità di reintegro delle spese». E si rese disponibile a versare immediatamente ventimila euro. Questa vicenda, ricostruisce Minzolini, fu montata proprio in coincidenza «con il voto di fiducia del 14 dicembre», si tenta di «evitare che io faccia il direttore» quando tira aria «di elezioni». L’accusa regina verte sul fatto che nelle spese non fossero stati indicati «i nomi dei commensali dei pranzi», ma alla Rai è prassi «che il direttore non li comunichi».
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